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giovedì 16 aprile 2015

Il taccuino narrante: osservazioni, note e spunti tratti dalla quotidianità - IL FLAUTO


I miei occhi osservano, il mio taccuino narra

Volti. Sono volti quelli che vedo tutte le mattine nei tunnel della metropolitana. 
Ogni giorno centinaia, migliaia di volti diversi mi passano accanto. Non sono mai gli stessi, mi guardano, mi evitano, mi studiano da lontano; qualcuno ha occhi compassionevoli, qualcun altro mi scansa come una malattia contagiosa, qualcuno si ferma ad ascoltare la mia musica.
Suono il flauto: è il mio compagno di viaggio, il mio scudo contro il mondo e le sue ostilità. Lo conservo in una custodia di stoffa lisa che tengo nella tasca interna del cappotto; ormai fa parte di me, adesso che sono rimasto solo su questa terra che mi ospita, in questa città dove tutti vivono una quotidianità accettabile e nessuno piange un passato di guerra e morte come quello da cui provengo io.

Mi chiamo Miralem e sono sopravvissuto all'attacco da parte dei serbi della città di Srebrenica, nel lontano 1995. Avevo una moglie, Saima e una figlia di cinque anni, Elma. Vivevamo in un villaggio di poche centinaia di abitanti e quando la follia omicida di Karadzic e del suo esercito si è scatenata contro la nostra popolazione, costringendoci a fuggire dalle nostre terre, abbiamo trovato rifugio nei boschi, lungo la strada per raggiungere Tuzla. 
Il terrore negli occhi dei bambini e il rumore assordante delle granate sono un ricordo che non riesco più a cancellare: la corsa verso la salvezza negata, l'odore degli alberi mescolato a quello della polvere da sparo; l'incubo di mogli separate dai mariti e di figli sottratti alle madri con la forza. Corriamo, annaspiamo con i carichi in spalla, la nostra vita chiusa in bagagli improvvisati a ricordarci che siamo esseri umani, non bestie da stanare e uccidere come prede di una battuta di caccia. 
Era l'11 luglio del 1995, quando un esercito di diavoli serbi ci ha teso un agguato. Al buio, il fuoco delle armi rendeva ancora più infernale quel barbaro spettacolo di violenza e morte: donne e bambini uccisi senza pietà, uomini fatti prigionieri, altri giustiziati sul posto sommariamente, davanti alle lacrime e al sangue di chi, impotente, rimaneva a guardare con strappi sul corpo e nell'anima difficili da ricucire. 
Io ero fra quelli. 
Ho finto di essere un cadavere fra i cadaveri e quando un soldato mi ha calpestato, schiacciando sopra la mia testa i suoi anfibi, ho sentito come una lama trafiggere il lato destro del mio viso poggiato con la guancia sulla nuda terra: sono rimasto a occhi chiusi, soffocando in un grido imploso il lancinante dolore, che partiva dal mio orecchio e penetrava fin dentro il cervello. 
Sono rimasto con gli occhi chiusi per lunghi minuti, che mi sono sembrati ore.
Sono rimasto con gli occhi chiusi a pregare per la mia salvezza e per quella della mia famiglia.
Sono rimasto con gli occhi chiusi a chiedermi perché.
Confuso e stordito.
Con gli occhi chiusi.

Li tengo ancora così, quando suono il mio flauto.
Le note raccontano la mia storia: le conosco a memoria, come quando era Elma a suonarle e io le dicevo che un giorno sarebbe diventata una grande musicista. Adesso sono io a custodire il suo sogno spezzato, a far brillare di lei ciò che non c'è più e a vivere per lei tutto ciò che della vita si è persa.

In un luogo così caotico e rumoroso, nessun suono mi raggiunge: vedo labbra aprirsi, gente parlare, ma le mie orecchie sono organi muti. La mia sordità mi aiuta a dare significati diversi alle cose, così ho costruito la mia dimora nel silenzio, la mia salvezza nei volti anonimi della gente che passa, nelle mani misericordiose di chi mi allunga pochi centesimi.

E nel mio flauto.

(Non so di che nazionalità fosse l'uomo che con il suo flauto ieri ha accompagnato il mio tragitto fino al treno, lungo la galleria della metropolitana. L'ho guardato mentre eseguiva il brano e mi ha ricordato un ospite del campo profughi dove prestavo servizio, in veste di volontario del soccorso della Croce Rossa, a Caltanissetta, qualche anno fa. Gli ho cucito addosso una storia non sua, ma che è esistita realmente nei ricordi e nei racconti delle persone che ho conosciuto in quel centro di accoglienza).





12 commenti:

  1. Mi è piaciuto questo racconto, è molto post-moderno e si avvicina a ciò che io amo raccontare. Probabilmente però, conoscendomi, avrei dato maggior rilevo all'atmosfera urbana, al senso di alienazione nel presente, piuttosto che al passato, comunque fondamentale per lo sviluppo della storia.

    La cosa bella, di noi scrittori, è che siamo uno diverso dall'altro! :)

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    1. Grazie per l'apprezzamento. In realtà l'attenzione è focalizzata sul passato perché mi sono ricordata di quando stavo ad ascoltare il racconto dei numerosi kossovari fuggiti dalle loro terre all'indomani di un'altra delle più sanguinose pulizie etniche che la storia ricordi. L'artista di strada incontrato in metropolitana mi ha ricordato nelle fattezze fisiche un ragazzo al quale avevano ucciso l'intera famiglia. Un orrore senza fine che mi è tornato in mente, agevolato dalla melodia triste suonata con il flauto.

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    2. Mi piace: asciutto, dolente, ricorda la mia amata Alice Munro. Brava Marina :)

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  2. Accidenti questo tuo post mi ha commosso (mi è venuto il magone e mi è spuntata una lacrima )
    un racconto bello ed emozionante. Brava davvero

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    1. Grazie, Giulia, mi fa piacere che l'emozione con cui ho scritto questo mini racconto ti abbia raggiunto!

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  3. Questo racconto mi ha toccato. È difficile raccontare esperienze come queste, sopratutto se non le hai vissute in prima persona, ma tu ce l'hai fatta in poche righe.

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    1. Grazie Alexandru e benvenuto! Ho visto che anche tu scrivi racconti, la passione per la scrittura ci accomuna. Farò ancora una visita alla tua pagina per leggere di più. :)

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  4. Grazie per le visite Marina e per i gentili commenti che hai lasciato :). Sei sempre la benvenuta.

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