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giovedì 29 ottobre 2020

L'eco #7 - Archivio di ricordi: la grandezza del perdono

Ho elaborato questa pagina a luglio, ma è rimasta solo un’intenzione, perché quando ho provato a scriverla l’ispirazione si è infeltrita come la lana dopo un lavaggio sbagliato e l’ho mollata là, a dileguarsi nel caldo dell’estate. In genere non recupero più le idee alle quali rinuncio, ma qualche volta proprio quelle idee tornano a scuotermi, mi gridano nelle orecchie, occupano il mio cervello finendo per imporsi, soprattutto quando qualcosa le dissotterra. E così, tormentata di nuovo da un ricordo riemerso dal passato, ho deciso di dare udienza a un’eco rimbalzata nel presente dal lontano 1985, che non ho mai sentito la necessità di esternare forse per pudore, per orgoglio o per mero disinteresse. Adesso è il bisogno a premere perché io racconti questa storia.


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In primo liceo avevamo una nuova compagna di classe, ripetente, che la professoressa collocò accanto a me nel banco. Alessia è entrata nel mio stretto clan di amiche subito, non appena la sua simpatia e il suo animo casinista ebbe modo di fare presa su di noi. Era un soggetto da tre in pagella, che aveva trovato nella mia disponibilità ad aiutarla nello studio un’autentica manna; spiritosa sì, anche se in modo triviale e con scarsa ironia, nonostante tutto: spesso era la sua permalosità a incattivirla.

L’ho incontrata casualmente quest’estate, durante la parentesi di normalità riconquistata dopo il lockdown primaverile. Io mi stavo dirigendo verso la fermata “Spagna” della metro, lei faceva la turista nei pressi di Trinità dei Monti. Un incrocio di sguardi che in un secondo si è annebbiato di ricordi: 

- Alessia, ma sei tu?

I trentatré anni trascorsi dopo la maturità senza avere avuto più occasione di vederci non l’hanno cambiata fisicamente: si è un po’ appesantita, ma l’ho riconosciuta dal taglio di capelli, sempre quello e dal suo modo di muovere la bocca, che sotto la mascherina immaginavo disegnare delle forme geometriche, esattamente come allora.

"Quanti secoli sono che non ci vediamo?"

"Minchia, un’eternità!"

È rimasta la stessa.

Ho guardato l’ora e, all’istante, ho deciso che avrei tardato il rientro a casa, che un’occasione simile e dove mi capitava più! Quell’incontro, forse, avrebbe rappresentato una redenzione, la catarsi attesa per anni; forse avrebbe dato a entrambe la certezza che crescendo si cambia, che la maturità è il regalo automatico che la vita fa quando accumuli esperienze, vittorie, sconfitte e ti rendi conto che le boiate commesse a quindici anni restano boiate che il tempo ingoia.

Alessia avrebbe potuto accampare una scusa qualsiasi per squagliarsela e anch’io avrei potuto liquidarla con un saluto spiccio, invece ci siamo riempite di domande del tipo cosa fai, dove vivi, lavoro, famiglia, sedute in un bar, l’una di fronte all’altra, davanti a un caffè macchiato lei e un succo di frutta io e, in mezzo, tra noi, quei trentatré anni di odio cancellato. 

Cancellato davvero?

Vittima e carnefice attorno allo stesso tavolo, in un’afosa mattina di luglio, a Roma.

Ed è bastata una domanda all’Alessia maniera, pronunciata da lei con il solito fraseggio sboccato, quel “ma ti ricordi, che minchia bollita ero?” a riaccendere, improvvisamente, lo schermo degli anni di liceo.

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La camuffata afonia al telefono era quella del compagno di classe che, in segreto, dichiarava il proprio interesse alla compagna di classe, innamorata di lui; le parlava come gli assassini con la cornetta schiacciata contro la bocca nei migliori cliché dei film gialli e le ingiungeva con quel filo di voce di non dire niente a nessuno, perché non voleva essere preso per “coglione” dagli amici. E lui non era mica uno qualsiasi: era Peppe rubacuori. Non scherziamo, eravamo tutte pazze di lui, ma qualcuna si era spinta a organizzare uno stupido scherzo ai danni dell’amica più credulona, della più complessata, di quella che mai avrebbe immaginato di piacere al ragazzo più corteggiato della scuola. E invece lui la chiamava, nel pomeriggio, sempre alla stessa ora e ogni sua frase era studiata apposta per farla sentire una regina e lei non si domandava mai perché le si rivolgesse sfiatando dentro la cornetta e l’unica volta che glielo aveva chiesto, mentre attorcigliava il filo del telefono intorno al dito indice, lui le aveva detto che era perché era rimasto rauco dopo un allenamento di calcio e lei si faceva piacere quella risposta ridicola e rideva persino, un po’ divertita, un po’ pizzicata dal dubbio che fosse uno scherzo, preferendo abbandonarsi alla possibilità che fosse tutto vero e alla felicità che il privilegio le garantiva, piuttosto che credere che qualcuno volesse davvero mortificarla in quel modo. E il copione era sempre lo stesso: appuntamento telefonico pomeridiano con premeditato incontro di tre amiche iene a casa della quarta, regista della presa in giro.

Poi, quando a scuola quel Peppe trasognato mostrava la sua normale indifferenza, quando non ricambiava i suoi sguardi timidi e faceva come se in classe fossero tutti presenti meno che lei, lei si sfogava con una delle amiche del clan, le raccontava che lui le aveva detto: “mi raccomando, non fare caso al mio comportamento in classe, ti ignorerò volutamente per non generare sospetti” e però di quella stranezza chiedeva il conforto, avida di conferme e di consigli, maledettamente ostinata a non volere considerare quell’improbabile intesa con Peppe rubacuori ciò che effettivamente era: uno scherzo.

Che errore affidarsi e fidarsi dell’amica, che assecondava la sua illusione, incoraggiandola a continuare a dare credito agli approcci telefonici, forse goffi ma sinceri, del compagno di classe, inconsapevole protagonista, complice ignaro di una cattiveria attecchita su una personalità fragile. Perché è facile prendersela con la fragilità dell’animo umano e con l’ingenuità, che non permette di scavare nelle intenzioni, di indagare un comportamento ambiguo e spinge il piede verso la trappola del bullismo.

Qualcuno rideva e si divertiva alle sue spalle. Ed erano le persone che lei chiamava “amiche”.

Il pianto di Alessia, alla fine di quell’infame gioco, è la musica triste che non ho mai dimenticato.


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Abbiamo ricordato molte cose, io e Alessia, quella mattina; abbiamo riso, io a occhi bassi, lei senza imbarazzo nel bucarmi con i suoi. Perché io avevo avuto qualcosa da farmi perdonare, allora, lei qualcosa di cui andare sempre fiera: la grandezza del perdono.

Alessia mi ha lasciato il suo numero di telefono; salutandomi, mi ha detto: “Non farti venire strane idee, che stavolta m’incazzo!”

Il tempo le ha regalato anche l’ironia. 

                     

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Se volete conoscere le ragioni della nascita di questa rubrica leggete l'#Eco 1

Gli altri ricordi sotto l'etichetta L'Eco - Archivio di ricordi




24 commenti:

  1. Il miglior post che ho letto ultimamente (dove ultimamente è un concetto indefinito, in realtà).
    "la grandezza del perdono". E' una grande forza saper perdonare. Ma è importante anche sapere accettare di essere perdonati.
    Anche per questo mi sono iscritto su Facebook: perdonare ed essere perdonato, per piccole cose :)

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    1. Grazie Riccardo, ho meditato a lungo la scrittura di questo post, perché di solito tendiamo a raccontarci nascondendo le parti peggiori di noi, ma è troppo facile mostrare sempre il lato buono. Ho pensato che, forse, la scia del rimorso che continuava a opprimermi poteva essere definitivamente cancellata parlando apertamente di ciò che aveva provocato quel senso di colpa. Certe volte è necessario credere nel perdono, perché insegna a sua volta a perdonare ed è giusto trovare il modo per far coincidere entrambe le cose. Tu, iscrivendoti su Fb, ci sei riuscito?

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  2. Una delle tue bellissime pennellate, che intingono la punta nel ricordo e lo sublimano. Curioso l'incontro dopo tutti questi anni e lontano dalla vostra regione.
    Mi hai fatto venire in mente quanto si possa essere cretine da ragazzine, se penso a tutte le stronzate che combinavo assieme a mia sorella e alla vicina guascona. Noi ai danni di un poveretto che nessuno filava, e che cadde con tutte le scarpe nel nostro scherzo telefonico. La vicina guascona diede appuntamento al malcapitato al bar di sotto, fingendosi una ragazza interessata a lui, e lui si presentò e restò lì almeno un'ora, come vedemmo spiando attraverso le tende delle finestre. Che iene. :)

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    1. Gli scherzi telefonici andavano di moda, allora. 😁 Oggi, una cosa del genere sarebbe anacronistica (si fa di peggio con i social).
      Comunque, cara Luana, ti ringrazio per il tuo commento e, tra l’altro, è pure consolatorio sapere di non essere stata l’unica iena cretina, in passato. Alla fine, credo, che anche queste esperienze, anche avere sperimentato il ruolo di “ragazze cattive”ci abbia insegnato da quale parte sia giusto stare, nella vita.

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  3. Wow.
    Sono d'accordo con Riccardo. Bellissimo post. E ti prego, usalo quel numero. Fosse anche solo per scambiare due risate in chat.
    Io sono moooooolto fatalista. Il vostro incontro non è stato un banale caso. Ne sono certa.

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    1. Dedicato a tutti quelli che credono nel destino. In effetti, è stato strano rivedersi dopo tutti questi anni, ma ho saputo cogliere il segno del destino e trovato il coraggio di riparlare di quella infamata. Per fortuna, siamo cresciute, la maturità ci ha cambiate, ma soprattutto lei è stata grande a non serbare rancore e se si è trattato di apparenza lo scoprirò solo usando quel numero. Sì, la chiamerò. Grazie, Claudia.

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  4. Ricordo molto significativo reso speciale dal suo esito presente, a trent'anni di distanza, quando i ruoli sembrano invertirsi e chi allora ridacchiava adesso è mortificato e chi allora era stato preso in giro appare sereno. E anche capace di perdonare, che è il perfetto lieto fine di cui c'è sempre bisogno, nella vita prima ancora che nella fiction.

    P.S.: e dicevi pure che non ti senti più motivata a scrivere!

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    1. Ogni tanto ho sprazzi di ispirazione pura, che questa volta ho voluto assecondare, dopo che già una volta, quest’estate, li avevo trascurati. Provo a non mollare del tutto. 😊(e grazie per avere apprezzato questo mio tentativo.)
      Sai cosa ho scoperto? Che non mi dispiace aprire brevi parentesi della mia vita e raccontarle, mi sembra di potere avvicinarmi di più alle persone che, magari, hanno fatto esperienze analoghe; è anche un modo per liberarmi di certe zavorre mentali. E scrivere non assolve, forse anche a questa nobile funzione?

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    2. Certamente. Si scrive per se stessi prima ancora che per gli altri.

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    3. Già, ho passato la fase “scrivo perché voglio essere letta” e sono tornata agli intenti originari della mia scrittura. Certo, capita che qualche pagina scappi dal diario personale e si accomodi nel blog... ma per me resta un parlare intimo, che ha poco di veramente corale.

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  5. Che bella storia! Non avevo capito fino alla fine, credevo che Alessia fosse la bulla indomita che ti aveva trascinato a partecipare allo scherzo a scapito della sfigata della classe.
    Scrivi veramente molto molto bene! Meno male che questa storia è uscita dalla lavatrice!

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    1. Era quello il mio intento: fare credere sino alla fine di avere subito lo scherzo, non di averlo inflitto. Invece, ahimè, ho vissuto per anni con questo peso: sai i sensi di colpa!
      Grazie, Lisa, per avere letto e apprezzato.

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  6. Guarda, fossi stato io al posto di Alessia, ti avrei salutato garbatamente, mi sarei interessato quel minimo dovuto dalle convenzioni sociali, e poi appena mi fosse stato possibile me ne sarei andato, magari accampando una scusa qualsiasi, maledicendo per il resto della giornata la sfortuna di averti incontrato.
    Avrai capito che ai tempi del liceo ero un'Alessia, con la differenza che lei oggi è una persona migliore di me, mentre io non sono facile al perdono. Ma la tua in fondo è stata solo una ragazzata, io invece a quei tempi ho visto la stupidità e la cattiveria, il gusto perverso di mortificare e arrecare sofferenza.

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    1. La cosa imbarazzante è che io, per come sono fatta, avrei reagito esattamente come te, perché, quasi per una legge naturale del compenso, anch’io sono stata un’Alessia, qualche anno dopo. Già e non è tanto il perdono in sé che non riesco a concedere, quanto che non dimentico, non so azzerrare i conti e allora camuffo quel po’ di rancore che mi resta dentro con l’educazione. Una cosa che non ho riscontrato in Alessia: l’ho proprio vista spontanea e il suo affetto, nonostante tutto, mi è sembrato autentico. Lo so che esistono vari livelli di bullismo: dalla bravata alla cattiveria pura, ma non c’è innocenza quando agisci senza interessarti della sofferenza che puoi provocare, anche in un piccolo scherzo. Mi vergogno. Spero si vergogni anche chi ha fatto del male a te.

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    2. Ne dubito. Per loro sarà un "ma è stato tanti anni fa", "ma eravamo ragazzi", "ma si scherzava". Io quando ci ripenso mi sale ancora l'odio, e sto male a pensare quanto all'epoca ci soffrissi in silenzio, facendo finta di niente. E non è giusto che resti tutto impunito, addirittura perdonato.
      Non credo che i miei amici dell'epoca abbiano compreso perché abbia smesso di uscire con loro, per quelle 4 persone che rovinavano il gruppo, o i miei ex-compagni di liceo perché mi sia rifiutato di partecipare alla rimpatriata dei vent'anni o anche solo di commentare alla chat di whatsapp in cui mi hanno inserito senza chiedere. Come puoi presentarti come se niente fosse a una serata dove c'è gente che ha provato divertimento nell'umiliare e sbeffeggiare? Figurati che vergogna possano provare. Che poi magari insegnano ai figli l'importanza del contrastare il bullismo. Già.
      Comunque la vita procede a cicli, e anni dopo sul lavoro ho dovuto subire per anni mobbing orizzontale da parte di una collega, finché a quando se n'è andata.
      Anche una mia amica ha vissuto un percorso simile, prima a scuola e poi sul lavoro. Temo ci siano persone che sono vittime predestinate.

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    3. Sai cosa penso? Che sia stato sbagliato non parlarne quando era il tempo di farlo: riuscire a guardare in faccia una di quelle persone che non si sono risparmiate in ingenerose azioni di bullismo e affrontarle. Già, facile a dirsi ora! Ti rimane dentro una tale rabbia, lo capisco, però se ai compagni che non sanno perché tu ti sia autoescluso dal gruppo non viene in mente alcun motivo, allora forse sarebbe stato giusto dirgliene quattro. Magari non sarebbe servito a nulla, ma il tarlo, quando è ben piazzato, lavora anche nei cervelli meno sviluppati.
      Non ci sono vittime predestinate, forse è anche il nostro atteggiamento inconsapevole che, spesso, attira la cattiveria gratuita.

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    4. Quando una tizia del mio gruppo di amici disse che mi piaceva una ragazza del nostro gruppo, quella sera iniziò la gogna. Una delle sue amiche mi insultò gratuitamente e senza motivo dandomi più volte del pezzente, altri se la ridevano di gusto nel vedere il mio tentativo di mantenere una parvenza di dignità, i miei amici non dissero una parola per aiutarmi, gli animatori lasciarono correre.
      Ero stato lasciato solo da tutti quando avevo più bisogno.

      La ragazza che mi dava del pezzente. Una sera, mesi dopo, eravamo andati a prendere un gelato, e lei berciava a tutto volume. Un'animatrice le fece notare un cartello che chiedeva ai clienti di limitare i rumori nelle ore serali per non disturbare i residenti. Allora quella si mise a ridere apposta ancora più forte, facendo una risata asinina.
      Ma cosa vuoi dialogare con individui del genere?

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    5. Brutte persone. Hai la mia solidarietà.

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  7. Credo che nel corso dell'adolescenza non si sia del tutto consapevoli del dolore che si può infliggere a un'altra persona, uno scherzo però può essere molto crudele e forse ne hai avuto piena consapevolezza di fronte alle sue lacrime, però dentro di te quel ricordo era sempre una fitta di rimorso.
    Questo racconto probabilmente è scaturito da quel rimorso, anche se la tua compagna di scuola ha ridimensionato, con il tempo, il dolore di quello scherzo. Il perdono può essere molto liberatorio. Brava Marina un bel post. Sai che anch'io a volte lascio un post in bozza a lungo prima di riuscire a liberarlo...

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    1. Mi pentivo tutti i pomeriggi, dopo che chiudevo il telefono e guardavo in faccia le altre mie amiche, ma poi, spinta dall’immaturità, ritornavo nel gorgo, perché (questo non l’ho detto, bisognerebbe spiegare troppe cose) lei era una che incassava bene, in Sicilia diremmo “se le scippava”, che è un po’ una versione di “se le cercava”. Però, certo, io ho confessato il mio errore e non mi sono mai capacitata di come mi sia fatta trascinare in questo scherzo di dubbio spirito. Passato tutto.
      Sapessi, cara Giulia, ho una cartella nel pc che ho chiamato “bozze”: in realtà sono articoli spesso incompleti, che ho lasciato perdere perché, dopo averli scritti, non mi sembrava il momento di pubblicarli. E sono tutti lì, che aspettano, poverini! 😁

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  8. Letto con molto ritardo.
    Goduto con tanto riguardo.

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  9. Pensa un po', avrei detto anch'io dalla premessa che Alessia fosse il mittente della telefonata, non il ricevente. Il fuoripista ha funzionato alla grande.
    Sono stata anch'io un'Alessia, il mio diario di scuola delle medie (quanto erano personali a quei tempi!) fatto leggere di nascosto dalla mia amica a colui che non doveva, che poi mi prese in giro. Fu terribile. Dopo trent'anni, l'amica si è presentata alla cena di classe proclamandosi ancora "migliore amica" come se nulla fosse e di lui mi è capitato per caso la foto profilo e non l'ho riconosciuto... il karma gli ha presentato il conto! :P
    Poi sono stata anche una Marina, mi sono ripresa però in tempo. Capitò in un camposcuola estivo in montagna, ci conoscevamo in tre da scuola e là conoscemmo nuove ragazze. Una di queste veniva presa in giro, le facevano scherzi e lei ci cascava. All'inizio si rideva, e rideva anche lei, ma non allo stesso modo. Quando la vidi spaventata davvero dal fantasma che ruba le scarpe di notte, feci dietrofront e con me anche altre. Solo un paio continuarono, fino a che non furono riprese dagli adulti dell'istituto ospitante. La Alessia del caso era in realtà una ragazza con un piccolo deficit cognitivo, piccolo e non riconoscibile, e allora no, non erano più il caso di scherzare. Credo però che quel fatto mi sia servito ad aumentare l'empatia. :)

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    1. Sì, di fronte a un problema fisico o psichico di una persona i tre passi indietro sono d’obbligo, anche se non è così per tutti. Ed è lì, credo la differenza fra la bravata, lo scherzo di cattivo gusto, l’imbecillità e la cattiveria pura, il bullismo che fa danni seri.
      Abbiamo preso in giro e siamo state prese in giro: la ruota, il karma, alla fine, gira per tutti. Lo sai che ricordo qualcosa di simile a quello che hai raccontato a proposito del diario personale “violato” per mano di un’amica? Alle medie, io ho mostrato quello della mia più cara amica ad altre compagne: lo avevo io (non so perché) e mi piaceva un sacco: aveva una copertina bellissima ed era lungo e stretto, modello libri Iperborea, hai presente? Io sono stata ingenua, perché volevo solo fare vedere a queste mie amiche la copertina, loro, però, me lo hanno rubato dalle mani e hanno cominciato a sfogliarlo, impedendomi di riprenderlo. Sono stata un’inconsapevole colpevole e spiegarlo alla mia cara amica è stata dura. Oggi, però, tutt’e quattro le protagoniste ci ridiamo sopra.

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