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giovedì 1 marzo 2018

"Mapocho": fiume da incubo

Puente sobre el Rio Mapocho, foto di Josep Alsina

Non avete bisogno di guadare lo Stige né di immergervi nelle acque dell’Acheronte per sentirvi agli Inferi: vi basterà recarvi anche solo con la mente a Santiago del Cile e sedervi sulle sponde del fiume che la attraversa: il Mapocho.

Non avevo la necessità di abbandonarmi a una lettura distensiva, ma nemmeno il masochismo di infliggermi un tormento, eppure quando il gruppo del quale faccio parte su Twitter, TwoReaders, ha proposto di leggere Mapocho, della scrittrice Nona Fernández, ho raccolto l’invito: pur non conoscendo l’autrice né questo romanzo, la descrizione nel risvolto di copertina, che lo presenta come “testo imprescindibile della recente letteratura cilena”, mi ha subito incuriosita.
Non sapevo ancora che in realtà “Mapocho” è un incubo vestito da esordio letterario e non c’è una pagina che non ripeta al lettore: “salvati, mentre sei in tempo.”



Sono nata maledetta. Dalla vagina di mia madre alla cassa in cui ora riposo. Un’aura di merda mi accompagna, uno stronzo piazzato al centro della testa, come il mezzo melone dei matti di un famoso tango, ma più fetido, meno poetico. Sono nata sfigata. Dal mignolo del piede fino all’ultima ciocca sbiadita che mi pende dalla nuca. Mi hanno sputato fuori e sono finita in capo al mondo, a sud di tutto.

Questo è l’incipit di “Mapocho”.

Spiazzante, squallido, parecchio fastidioso.
Quei termini che sembrano eccessivi, del tutto fuori misura, hanno l’unico scopo di farmi subito sentire a disagio e in questo non mi ingannano, mi stanno dicendo: ”non sarà una lettura facile, sei sicura di volere attraversere le anse lunghe e tortuose del torbido Mapocho insieme a chi vuole raccontarti la sua storia chiusa dentro una cassa da morto?” 
Già, perché, dall’interno di quella cassa, qualcuno parla e vede cose attorno a sé: ha le scarpe rotte, le unghia sudicie, la carne in decomposizione e viaggia cullata dal nastro sporco del fiume che la trascina lentamente e la invita a dormire e ad abbandonarsi del tutto al suo cammino fecale.

Si chiama Bionda e la sua voce in prima persona si affaccia nel capitolo introduttivo e altre quattro volte nell’arco della storia, per dirci che è tornata a Santiago, la città natale abbandonata quando era bambina, su richiesta del fratello Indio. Porta addosso i segni dell’incidente stradale in cui entrambi rimangono coinvolti insieme alla madre, racconta di quando il padre lascia la famiglia per non farvi più ritorno e adesso si muove per le vie di una città che non riconosce più, ossessionata ancora dal passato che la perseguita come un fantasma. Il resto del romanzo è narrato in terza persona, occhio esterno che mostra verità vestite di mitologia, descrive personaggi fortemente caratterizzati, tra storia e antiche leggende, allucinazioni e ricordi che fanno ancora male.

Raccontare “Mapocho” non è facile. La vicenda procede per salti temporali non sempre cronologicamente lineari: torna indietro all’infanzia di Bionda nel Quartiere, dove si trova la  casa vecchia, lunga come una biscia, con un corridoio pieno di porte, in cui un tempo abitava con la madre, il padre mago che intratteneva i bambini sui gradini rossi esterni e narrava loro fiabe, una nonna devota, sempre circondata da gatti maleodoranti e Indio, l’amato fratello, per riaffiorare nel presente e ritrovare lo stesso luogo disabitato e in rovina: pareti che si sgretolano, intonaco scrostato, vetri rotti e una crepa profonda che attraversa la casa dalle fondamenta al tetto, una ferita aperta uguale a quella che Bionda si porta in testa dopo l’incidente.
Proprio come il serpente di acqua che ingoia detriti, rifiuti e carcasse, "Mapocho" mi immerge nello squallore della storia di Santiago, che affonda le radici nel peccato del suo fondatore, il conquistatore don Pedro de Valdivia:

Si dice che fosse estate e il mapuche era mezzo nudo, avvolto dal calore dei cavalli e da quella pelle spessa che sopportava le gelate senza fatica. Lo spagnolo arrivò con in mano un coltello, si avvicinò silenzioso e gli sfiorò la chioma con i polpastrelli. Lautano si svegliò e quasi morì di paura quando vide Valdivia impugnare l'arma sopra di lui. Avrebbe voluto gridare, chiedere aiuto, ma lo spagnolo gli posò un dito sulle labbra per zittirlo e gli spiegò che voleva soltanto una ciocca dei suoi capelli. Si dice che Valdivia lo fece voltare lentamente, con lo sguardo fisso sulla schiena e la folta chioma;

nella spietatezza del governatore Zanartu che fece costruire un lungo ponte stremando di fatica i miseri lavoratori:

Si dice che reclutò tutti gli ubriaconi e i ladruncoli. Svuotò le carceri, arruolò schiavi, indios e neri, li radunò e li chiuse in una guarnigione che costruì accanto al cantiere. Si dice che li incatenò ai ceppi, li alimentò con carne secca e avariata, facendoli lavorare dalle prime luci dell'alba fino al tramonto. Si dice che lui stesso girasse con una frusta e colpisse tutte le schiene che gli capitavano a tiro. Si dice che i lamenti dei lavoratori non lasciavano dormire la gente. Sembravano vere e proprie anime in pena, urlavano, chiedevano pietà, un attimo di riposo, respiro;

nella depravazione del Colonnello Carlos Ibáñez del Campo che operò una pulizia sociale facendo sparire nel nulla tutti i degenerati, i travestiti (le pazze), della città: 

I soldati entrarono, presero le pazze e le caricarono sul treno diretto al porto, da cui sarebbero salpate per Là Fuori.
Ciò che parrebbe essere vero è che le pazze non arrivarono mai a destinazione. Durante il viaggio furono gettate in  mare con tutte le loro cose. I corpi pieni di lividi caddero oltre il parapetto, sprofondando e sparendo dalla faccia della terra;

nella furia con cui i militari trattarono i cittadini di Santiago, reclusi nello stadio, poi dato alle fiamme:

Dallo stadio saliva un'immensa lingua di fuoco. Una fiamma rossa che si alzava tra i tetti illuminando l'intero Quartiere. Un'onda luminosa, con una corona di fumo che si spandeva e non permetteva di vedere con chiarezza. Dall'interno dello stadio arrivavano le grida, da fuori il pianto e le preghiere dei curiosi affacciati a guardare. Santamariafaiqualcosaperituoifigli. Ma la Vergine, come sempre di spalle, non si accorse dell'accaduto.

Si  respira aria di morte, il lezzo dei cadaveri esala dietro ogni “si dice” ripetuto come una cantilena:


"Si dice che Lautaro avesse quindici anni quando don Pedro de Valdivia lo fece prigioniero, là nel sud.”

Si dice che il Quartiere fosse chiamato la Chimba... Si dice che un giorno il Diavolo la raggiunse in cerca di un’abitazione.”

Si dice che stesse piovendo. Era un pomeriggio cupo, con lampi e tuoni... La casa stava affondando... Sembrava persa ogni speranza, ma in mezzo a tanto sconforto apparve un piccolo soldato baffuto che in tono sicuro si dichiarò pronto a sistemare la situazione. Era un colonnello. Colonnello Ibáñez, lo chiamavano.”


Si dice che Carmina la formosa avesse quindici anni quando una notte bussarono alla sua porta.”

Questo si dice.
Ma non è ciò che raccontano i libri di storia, ripuliti di ogni nefandezza, perché Fausto riceve un ordine in cambio di un buon compenso e di un aiuto concreto per la famiglia: scrivere la Storia completa del Cile, farne una riproduzione, una versione dei fatti con parole mescolate e condite, impastate con cura, cotte al punto giusto fino a convertirsi in verità cieche.
Così lo storico compone volumi su volumi di bugie mascherate.

Il compito è semplice, la storia è già imbastita, devi solo saperla raccontare. Esaltare l’essenziale, eliminare il superfluo. Vogliamo che riporti il giusto e il necessario.

E la verità naufraga in un mare di menzogne:

Le menzogne respirano, puzzano, gridano, vivono come un topo del Mapocho, nutrendosi di merda, contaminando, propagando la malattia, mandando tutto in rovina, creando altre menzogne, aggiungendo falsità a falsità, ingarbugliando, confondendo, complicando.

Mentre gli intrighi, le storie nate male, i racconti di fantasia, le finzioni, tutti gli inganni gonfiano il Mapocho, c’è una donna che ancora cerca risposte, chiusa nella cassa, con gli occhi aggrappati al presente, un'urna stretta al petto con le ceneri della madre defunta e il cuore legato ai ricordi. Non faccio in tempo a prendere respiro che vengo catapultata nella vita dei due fratelli, Bionda e Indio, portati lontano da Santiago, in una spiaggia del Mediterraneo, all’indomani della scomparsa del padre e poi separati dalla madre che conosce la natura del loro rapporto e teme che quella strana e ambigua attrazione reciproca possa sfociare in un rapporto incestuoso. 

“La tua mano è la mia. Sono io a toccarti. La tua mano è la mia bocca, la tua mano è il mio sesso e i miei seni, nascosti in questa cala perché tu non li veda, perché tu non possa masturbarti di nascosto in bagno pensando a loro, perché sono di tua sorella. Indio, sono gli unici seni proibiti su questa terra.” 

Non esco più dall’incuboOgni capitolo è un gradino che scende sempre più in basso e in fondo al tunnel nessuna luce.

La cosa che mi tira dai piedi nel guado putrido del Mapocho e mi trattiene dentro questo perenne inferno dantesco è proprio il linguaggio dell'autrice disturbante nella scelta di espressioni e termini, che mi si incollano addosso come una patina vischiosa difficile da eliminare: viscere fetide, cammino fecale, odore di piscio, fiume marcio di merda
E io me li sogno la notte: i morti che gemono ancora. Che non smetteranno mai. Galleggeranno nel fiume e urleranno sempre più forte. Corpi emaciati e bluastri di indios, neri e mulatti incatenati l'uno all'altro; uomini col collo mutilato e le loro teste in mano; "le pazze" vaganti sulla sponda del fiume come cagne orfane e Carmina, debole e nauseata. Con la gonna rotta, scalza, con le tette di fuori, i capelli in disordine e le gambe sporche di sangue, che fa il suo ingresso nello stadio e raggiunge i genitori.

A pagina 210 mi sveglio, finalmente, dall'incubo.

Il cielo sporco di Santiago rimane indietro. Il Mapocho si apre e tu senti l'odore del mare.


Ma l'unico odore che io sento è quello che mi ha lasciato sulla pelle il fiume di Santiago, evapora lentamente disperdendosi insieme ai suoni di una canzone scelta da Daniele, un lettore di TwoReaders, come colonna sonora della nostra lettura condivisa. E io la trovo perfetta per uscire da questa storia.

"Solo le pido a Dios"- Mercedes Sosa
















30 commenti:

  1. Dopo il tuo commento da me dove hai fatto riferimento a questo libro mi sono documentato. Confermo che pur trattando tematiche che io conosco bene, il suo linguaggio e la crudezza cmq dei temi che affronta sembrano rendere il libro interessante.

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    1. Se lo leggerai, poi mi farà piacere sapere quali sensazioni ti ha trasmesso. :)

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  2. Da una lettura tanto impervia è se non altro nata una recensione appassionata e appassionante :-)

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    1. Grazie, Ivano. Ora, non che il libro mi abbia appassionata, però nel bene o nel male, se qualcosa mi colpisce mi scatta l’approccio di pancia. :)

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  3. Il problema sai qual è? L’incipit anticipa l’andamento del romanzo in modo così palese che faccio fatica a trovare un motivo valido per continuare la lettura (e le citazioni che hai riportato confermano le mie impressioni). Provo a spiegare perché.

    Sul termine che utilizzi, “disturbante”, vale la pena fare una riflessione in più perché spesso viene usato (abusato) per identificare situazioni differenti. Disturbante, per come lo intendo io, non è volgare, non è questione di registro: disturbante è un testo – soprattutto di concetto che può agire anche attraverso lo stile – che si connette al mio senso di sconveniente o amorale; è qualcosa che mi respinge e mi attrae perché tira in ballo due parti di me, due posizioni antitetiche, e mi mette in difficoltà in un modo che razionalmente non so spiegare – mi disturba, appunto. L’effetto disturbante crea un legame col testo di tipo totalizzante, che però è diverso da “Fammi vedere questa dove vuole andare a parare”; continuo a leggere perché devo capire cosa ha provocato in me quel tipo di reazione, cosa, di quello che ho letto e mi allontana, ha a che fare con me. Tutto questo è magnifico ma è difficile da applicare in modo efficace nella scrittura perché basato su un equilibrio sottilissimo; sconfinare nel troppo o nel troppo poco è un attimo.

    Torno di nuovo sull’incipit perché è quello nel quale ci sono più errori, secondo me. Il primo è all’inizio, nella prima frase: “Sono nata maledetta”. Sarà che io ho un amore incondizionato per la letteratura del Sud degli Stati Uniti dove la maledizione è leva implicita di ogni narrazione però quell’apertura m’infastidisce. Faulkner ha scritto principalmente di maledizione, così come Flannery O’Connor, ma leggendo i romanzi dell’uno e i racconti dell’altra non troverai mai “sono maledetta” perché la maledizione non si autoproclama, sicuramente non con quella consapevolezza: deve cadere dal cielo come una punizione divina, o venire su, dalla terra dei tuoi antenati. A un certo punto uno dei personaggi del romanzo L’urlo e il furore dice: “C'è una maledizione su di noi non è colpa nostra è forse colpa nostra?” che dà un effetto diverso dall’affermazione della Fernández perché la formula dubitativa (è forse colpa nostra?) e la portata dell’evento che viene letteralmente dall’alto (su di noi) rende questa battuta così piena che vale l’intero capitolo. Nona Fernández non mostra ma dice (le regole esistono per essere infrante ma se esistono è perché qualcuno prima ci ha ragionato e magari non l’ha fatto a sproposito): non devi dirmelo tu che sei maledetta, devo sentirlo io. La doppia formula dalla-alla (dalla vagina alla cassa, dal mignolo alla ciocca) mi annoia, però facciamo che sia un problema mio; quello che annienta ogni tipo d’interesse è “Sono nata sfigata”. Bisognerebbe capire qual è il termine originale che ha utilizzato l’autrice ma non puoi aprire una storia con la maledizione e poi virarla alla sfiga nel giro di due righe. Dai, no.

    Tutto il resto è conseguenza.

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    1. Nemmeno io ho letto il libro, però qui mi si usurpa il ruolo di stroncatore ufficiale :D :D

      PS: sono del tutto d'accordo con l'analisi.

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    2. Uso l’aggettivo “disturbante” esattamente con le accezioni che gli dai tu: non è tanto la volgarità a disturbarmi, quanto la ragione che cerco di rintracciare nell’ostentazione di un certo linguaggio. Sono attratta e respinta nello stesso tempo: attratta come quando mi piacevano i film horror e più erano spaventosi più aspettavo la svolta cruenta, respinta come quando mi piacevano i film horror e più assistevo alle scene cruente, più volevo scappare dal cinema. Questa altalena di stati d’animo porta avanti per inerzia la lettura. Mi è successa la stessa cosa quando ho letto “Cecità”. Quello, però, mi è piaciuto molto. Questo no. Ha una sua forza, glielo riconosco, perché tutta questa “nudità” verbale fa da specchio al contenuto del libro che, secondo me, non poteva essere raccontato in modo diverso, pena risultare ordinario.

      Per quanto riguarda il “detto” non mostrato, credo ci siano storie che perseguano altri scopi oltre quello di dare al lettore delle chiavi di accesso al mondo nascosto dei personaggi. Qui non era importante capire quanto si sentisse sfigata nella vita Bionda e il perché, se è per questo fin dall’inizio sappiamo che lei è morta, perché c’è lei dentro quella cassa trascinata dal Mapocho, cioè sappiamo che d’ora in poi tutto quello che dice o fa è alterato dalla sua condizione di “anima vagante”. Tutta questa ricostruzione è solo il pretesto per smontare la Storia tramandata su Santiago del Cile, per sottolineare che la menzogna ha cambiato vite e anche il volto di un Paese.
      Sono altre le cose che non mi sono piaciute: la confusione dei passaggi, la narrazione in terza persona, spezzata nel mezzo da paragrafi in prima; le storie si mescolano e tu certe volte fai fatica a seguire il filo dei racconti mitologici, il filo di quelli veri del passato, il filo di ciò che accade nel presente. In più l’esagerazione di certe azioni che risultano improbabili, come quando hanno l’incidente è lei pensa di volere pettinare il fratello, di leccargli le ferite, facendogli scorrere la lingua sul petto e sul ventre. Ecco cose così mi hanno fatto sorridere.

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  4. Da quello che racconti il libro ha fatto il suo lavoro e l'incipit anche. Tutto urlava "sarà una storia sgradevole" e, in effetti... Ora, in questo momento della mia vita, non mi sento preparata/non ho voglia di affrontare con la letteratura una storia come quella che descrivi e immagino che l'incipit serva anche da avviso per i lettori come me. Ma sicuramente mi ricorderò di questo libro e se volessi immergermi nel dolore del sud America lo terrò presente. Il punto, credo, è che un libro deve fare il suo lavoro ed essere scritto con uno stile coerente con il suo scopo comunicativo. Mi pare che in questo caso il linguaggio non fosse gratuito ma funzionale a una storia estremamente dolorosa e sgradevole di cui si vuole far percepire tutta la ripugnanza.

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    1. Hai colto esattamente il significato della narrazione fatta con questo registro . Io non conosco altre opere dell’autrice e non so se questo modo di scrivere appartenga proprio a un suo stile, ma di certo il linguaggio usato è servito a restituire a una storia sgradevole tutto il suo orrore. E in questo, secondo me, il romanzo ha portato a casa il risultato voluto (oltre a un premio letterario e un bel po’ di acclamazioni.)

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  5. Marina, eu escrevo também. Editei a pouco um romance com enredo um tanto trágico, mas com um final feliz. A tua história é baseada no real e à realidade não se pode adocicar com derivações históricas. Parece-me mesmo um livro de conteúdo robusto, mas muito pesado. A América Latina passou grandes embaraços por ideologias postiças aos costumes de um povo com raízes na terra indígena. É a famosa teoria do caos - o Chile de hoje está entre os melhores países da América Latina. Ele se estabilizou e povo vive bem esquecendo um pouco direita e esquerda. Quero parabenizá-la como escritora, pois sua obra é muito importante. Parabéns! Grande abraço. Laerte.

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    1. Ciao Laerte, sono contenta di ospitare un tuo commento nel mio blog e anche di condividere con te la passione per la scrittura.
      “Mapocho” racconta una verità alternativa rispetto a quella tramandata dalla storia ufficiale del Paese. L’America Latina ha una storia difficile alle spalle, anni di dittature e di guerre che l’hanno sfiancata, ma mai abbattuta, non dubito che oggi in Cile si viva bene.
      Grazie del tuo contributo di pensiero. 🤗

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  6. Gli indios mapuche (ne parlava anche Daniele) sono stati le vittime, i "pellerossa" dell'America Latina. Il concetto di "frontiera" in Argentina nel XIX secolo è stato identico a quello degli Stati Uniti, con la sola variante cardinale che era il "sur" anziché il "west". Idem in Cile. Sono due paesi in cui la maggioranza della popolazione è costituita da immigrati europei e i nativi sono stati ridotti a vivere in riserve, o comunque sono socialmente marginali.
    Capisco perfettamente che per loro l'attuale Cile (o Argentina) sono un'usurpazione e la rappresentazione "demoniaca" del Cile ha un senso. Comunque, per dire, Isabel Allende ha "riscritto" la storia del Cile senza censure, ma senza neppure ricorrere a un linguaggio tanto disturbing, però credo che sia riuscita ugualmente nel suo scopo, anche se lei ovviamente ha narrato dal punto di vista del "popolo" includendo anche gli immigrati europei, quindi coloro che sono comunque usurpatori...

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    1. In questo libro le storie relative alla fondazione della città e quelle successive sui periodi di dittatura sono narrate in chiave mitologica: sono leggende che tramandano figure squallide di conquistatori. Valdivia, per esempio, aveva preso per sé un mapuche ma lo aveva elevato al rango di aiutante. Solo che poi... e da quell’affronto scatta la vendetta degli indios contro gli spagnoli con esiti disastrosi. Anche il racconto del colonnello Ibáñez è mescolato alla leggenda, però è facile ricostruire la storia di un popolo nonostante le menzogne tramandate, in questo l’autrice ha trovato un modo originale per farlo.

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  7. Questi romanzi che descrivono le vicende dell'America del Sud sono terribili, ma sono convinta che siano letture necessarie proprio per scrollarci di dosso tante narrazioni storiche edulcorate. Se si leggono le testimonianze di padre Bartolomé de Las Casas che denunciava il sistema di sfruttamento degli indio e le orribili torture da loro subite, anche qui c'è da farsi venire gli incubi. Lo stile usato dall'autrice è funzionale, penso che una storia come questa non avrebbe potuto essere narrata in maniera diversa.

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    1. Se l’intento era quello di rendere il Mapocho metafora della storia del Cile, tutto il libro, con il suo linguaggio e le vicende raccontate, realizza questo obiettivo: è come sentire sulla pelle il putridume di quelle acque macchiate di sangue e la sensazione sgradevole comunica tutto l’orrore anche della storia triste di un Paese, accomunabile tra l’altro alle sorti di tanti altri Paesi dilaniati da guerre combattute per gli stessi motivi (e l’attualità, purtroppo, mostra realtà uguali se non peggiori,)

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  8. Sull'incipit mi sono già pronunciata. Il post, sono sincera, non l'ho letto, se i primi paragrafi. Siccome voglio leggere il libro, mi sono fermata quando ho notato che rivela molto della trama. Penso infatti che, per chi scrive e chi fa l'editor, possa essere una lettura importante, a prescindere dal proprio gusto. Preferisco quindi sbatterci la testa da sola. Però poi tornerò. promesso. ;)

    P.S. Se riesco più tardi ti mando quel famoso messaggio vocale. Sennò lo farò domani. Smack.

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    1. Sì, è vero: se vuoi leggerlo senza farti condizionare, è meglio non sapere nulla sul libro. Io non conoscevo la storia né l’autrice e arrivare alla lettura non preparata mi ha fatto vivere meglio le sensazioni, ne sono convinta.
      Poi mi dirai che ne pensi. ;)

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  9. Io continuo a trovarlo attraente e repellente, esattamente come te, che ti poni il problema di accogliere o meno questo tipo di narrazione nel tuo paradigma ideale di letture. Ma cerco di focalizzare una visione completa del racconto, senza lasciarmi assorbire troppo dalle citazioni.
    Il punto è, forse, che si antepone risolutamente il "come" è stato scritto al "cosa" sta narrando, così si resta impigliati in questa duplice sensazione. Come ha scritto più sopra Cristina, credo che un libro come questo rispecchi intanto molta parte della tragica storia sudamericana, qui con uno stile estremo, che intende scuotere.
    In fondo, quale sensazione lascia questo libro? Ricordi il linguaggio estremo o l'intreccio? Se ne ricordi solo il primo, allora il tuo senso critico nei riguardi dell'uso disinvolto dei termini ha prevalso sul tuo farti spettatrice di una storia tragica.
    Se dinanzi a un film horror, che tu citi, ci poniamo con questo duplice atteggiamento, ci perdiamo molta parte di quello che intende raccontare (mi riferisco a film degni di essere chiamati tali). Se è un film d'autore, appartenente a un genere che non prediligiamo ma che ci attrae per quel vago senso del macabro che esiste in ciascuno di noi, non dovremmo lasciarci sfuggire il quadro completo, continuamente tentati di guardare a un dettaglio di questa tela ideale.
    Non so se sono riuscita a spiegarmi, chiedo venia. :)

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    1. Ti sei spiegata benissimo, Luana e, tra l’altro, hai proprio colto il senso di questa lettura. Il mio processo interiore è passato lentamente dalla ripugnanza verso un linguaggio fin troppo carico allo sgomento per la storia narrata. C’è un capitolo molto bello (ho segnato un paio di parti che ho trovato poetiche e commoventi), parla della stazione Mapocho, un tempo quando si udiva il suono della campanella, l’arrivo e la partenza dei treni, gente che mormorava con le valigie in mano, le rotaie che scricchiolavano. Adesso è un cento culturale: “le ossa della stazione vennero riutilizzate” e c’è una bellissima ricostruzione che rende tutto sospeso fra sogno e realtà.
      Il libro a me non è piaciuto in senso stretto, perché soggettivamente l’ho vissuto male, ma ne ho parlato proprio perché ha provocato in me un tale impatto emotivo che fermarmi solo al dato raccapricciante dei termini usati non avrebbe reso giustizia al “molto di più” presente in questa storia.

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  10. Tanto di cappello, Marina. Quando decido di evadere leggendo, vado su pianeti decisamente lontani da questo mondo e dalle sue nefandezze, in tutti i sensi. La lettura per me è innanzitutto un'attività piacevole. Certo, in alcuni casi si sente la necessità di leggere certa letteratura: però non si legge più per piacere, ma per conoscere e capire.

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    1. Un po’ anche per studiare: in quale modo uno scrittore decide di attirare l’attenzione; come la strategia stilistica possa essere fine a se stessa o funzionale alla storia; quale possa essere la necessità di raccontare in un certo modo. Già il fatto di non avermi lasciato indifferente, per me, è un valore aggiunto non dico da prendere a esempio,ma da tenere presente quando scrivo per non passare inosservata.

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  11. In fatto di strategia stilistica un conto è non passare inosservato, un altro è catturare l'attenzione del lettore. Anche per me, come potenziale lettore, lo stile non è passato inosservato ma la mia reazione (e penso di non essere l'unico) è stato "lungi da me" :-D .

    Soggettivo, chiaro.

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    1. Sì, ma resta il fatto che tra provocare una reazione qualunque e lasciare del tutto indifferenti, preferirei la prima opzione.

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  12. Questo libro deve essere un bel pugno allo stomaco, ma questo non lo affermo in senso negativo. Qualche tempo fa in un'intervista televisiva da Fazio (ma non ricordo assolutamente chi fosse) uno scrittore disse che la letteratura deve disturbare, la letteratura deve dire verità scomode, perché non è garantito che certe verità arrivino nei libri di storia. Quelle parole mi colpirono moltissimo e mi fecero riflettere. Leggendo il tuo post mi ritrovo molto in questa considerazione, è terribilmente vera. A volte non si può scrivere una storia in modo "carino è garbato" soprattutto per storie che non lo sono affatto, il linguaggio deve essere disturbante.

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    1. Sai qual è l’effetto strano, Giulia? Che dopo una lettura del genere la mente ha bisogno di abbassare il livello di tutto, di attenzione, di coinvolgimento e allora in automatico sceglie di dedicarsi a qualcosa di più leggero.
      (A parte che io, pazza, mi sono buttata su “Cime Tempestose”, ma i classici non si toccano mai) Così ho scelto il romanzetto di un esordiente di cui ho visto la presentazione. Niente, Mapocho è un pugno, non mi è piaciuto, ma... questo è quello che cerco nei libri: quel pugno che mi fa venire la voglia di parlarne.

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  13. Carino e garbato...non so perché il correttore automatico si ostina a mettermi sempre l'accento sulla e.

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  14. È accaduto con alcuni libri: la voglia di chiudere gli occhi per non andare al rigo successivo. Un po' come davanti alla scena di un film dove istintivamente giri lo sguardo altrove. Il punto è che la verità di certe storie ha la forza di farci reagire con tutta la sensibilità di cui siamo dotati come persone; sensibilità e vigliaccheria, talvolta. Per me, un libro deve agitare l'anima, altrimenti è solo evasione. Non è il momento per me di dedicarmi a certe letture, ma la segno tra le eventuali. Bacione.

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    1. Non aggiungo altro, perché sono del tutto d'accordo con te: la lettura di evasione ci sta e qualche volta è pure necessaria, ma a me un libro deve scombinarmi i pensieri e allora, anche se non mi è piaciuto, non mi pento comunque di averlo letto.
      Buon fine settimana, Iara.

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  15. Uhm, non lo so... mi pare che Isabel Allende abbia descritto altrettante nefandezze del suo paese, senza aver necessità di un linguaggio di questo tipo.
    Ottima recensione comunque. ;)

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    1. Grazie Barbara. 😊
      Sì, qui il linguaggio fa molto la differenza. Forse, piaccia o meno, questo è proprio il punto di forza del romanzo.

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