Riscaldo i motori del blog con una citazione estiva, la lunga pagina di un romanzo che ho letto in pochissimi giorni (il che dà la misura di quanto mi sia immensamente piaciuto).
Il libro è un classico di letteratura americana, scritto nel 1939 da John Steinbeck: “The Grapes of Wrath”, in Italia tradotto e pubblicato un anno dopo da Bompiani con il titolo di “Furore”. Racconta il drammatico esodo di una famiglia di mezzadri dell’Oklahoma, negli anni trenta, costretta a lasciare le campagne coltivate a cotone, il lavoro, la casa, per raggiungere la California, nuova “Terra Promessa” per un’intera popolazione in fuga. L’uso dei trattori risponde alle necessità di padroni insensibili e potenti, che non si fanno scrupoli a spianare aie e abbattere fattorie pur di trarre nuovo profitto da una terra troppo sfruttata, che diventa sempre più povera. E il cammino di questa gente sfollata diventa un viaggio della speranza, con picchi di rabbia che si alternano a momenti di grande commozione. Uno di questi è la pagina che condivido qui: una lettura che forma grumi in gola difficili da deglutire. La guerra fra poveri è una realtà che purtroppo non conosce soluzione ancora adesso ed è un dramma che mi diminuisce, mi fa sentire piccola, qualche volta viziata, spesso impotente.
Il capitolo 19 di “Furore” sarebbe da riportare per intero, ma io ho selezionato la parte che più mi ha commosso.
Accade che la famiglia Joad, durante il suo viaggio, si accampa in una baraccopoli lungo una strada di campagna e Ma’ si adopera per preparare una minestra con le poche patate rimaste. Un gruppo di bambini si avvicina e assiste in silenzio a tutta l’operazione (e già, quando si parla di bambini che patiscono la fame, il mio cuore si rimpicciolisce).
La meditazione, il senso di sgomento, la pena infinita è quanto vorrei condividere con chi si fermerà a leggere questo passo:
“Al, Ma’ ha scolato il bollito. Dice che devi venire.”
Al si pulì le mani sui pantaloni. “Oggi non abbiamo mangiato,” disse a Floyd. “Quando finisco torno a darti una mano.”
“Solo se ti va.”
“Certo che mi va.” Seguì Winfield verso il fuoco di Ma’.
Adesso c’era ressa. I piccoli sconosciuti si erano avvicinati alla pentola fumante, tanto che Ma’ li sfiorava con i gomiti appena si muoveva. Tom e Zio John erano in piedi accanto a lei.
Ma’ disse in tono scoraggiato: “Non so come fare. Devo dar da mangiare alla famiglia. Come faccio con questi qua?”. I bambini restavano immobili e la guardavano. Le loro facce erano chiuse, rigide, e gli sguardi andavano meccanicamente dalla pentola al piatto di stagno che Ma’ teneva in mano. Gli sguardi seguivano il mestolo dalla pentola al piatto, e quando il piatto fumante passò da Ma’ a Zio John, gli sguardi lo seguirono. Zio John affondò il cucchiaio nel brodo, e gli sguardi schierati salirono con il cucchiaio. Un pezzo di patata entrò nella bocca di Zio John, e gli sguardi schierati si appuntarono sul suo viso, per vedere la reazione. Sarebbe stato buono? Gli sarebbe piaciuto?
A quel punto Zio John parve vederli per la prima volta. Masticò lentamente. “Piglia qua,” disse a Tom. “Non ho fame.”
“Oggi non hai mangiato,” disse Tom.
“Lo so, ma mi fa male la pancia. Non ho fame.”
Tom abbassò la voce: “Portalo sotto la tenda e mangia”.
“Non ho fame,” insistette John. “Li vedo pure se vado sotto la tenda.”
Tom si voltò verso i bambini. “Via,” disse. “Su, andate via.” La schiera di sguardi lasciò il bollito e si posò perplessa sulla sua faccia. “Andate via, su. È inutile che state qui. Non ce n’è abbastanza per voi.”
Ma’ scodellò il bollito nei piatti di stagno, pochissimo bollito, poi posò i piatti per terra. “Non li posso mandare via,” disse. “Non so come fare. Su, pigliatevi i piatti e andate dentro. A loro gli do quello che resta. Ecco, porta questo a Rosasharn.” Sorrise ai bambini. “Allora,” disse, “ora da bravi andate a cercarvi un pezzo di legno piatto, e io ci metto il bollito che resta. Ma non voglio zuffe.” Il gruppo si sciolse all’istante, in un silenzio di tomba.
I bambini corsero a cercare i pezzi di legno, poi s’infilarono nelle rispettive tende e ne uscirono muniti di cucchiaio. Tornarono ancor prima che Ma’ avesse finito di ripartire i piatti, muti e famelici. Ma’ scosse la testa. “Non so come fare. Mica posso rubare alla famiglia. Devo dar da mangiare alla famiglia. Ruthie, Winfield, Al,” gridò indispettita. “Pigliatevi i vostri piatti. Spicciatevi. Sotto la tenda, forza!” Guardò contrita i bambini in attesa. “Non ce n’è abbastanza,” disse umilmente. “Ora metto la pentola lì così potete pigliarne tutti un pochettino, ma non aspettatevi chissà che.” Tolse la pentola dal fuoco e la posò per terra. “Aspettate. È ancora bollente,” disse, poi si affrettò verso la tenda per non vedere. La famiglia era seduta per terra, ognuno con il suo piatto; e fuori si udivano i bambini armeggiare nella pentola con i loro legnetti e i loro cucchiai e i loro pezzi di latta arrugginita. Un grumo di bambini nascose la pentola alla vista. Non parlavano, non si azzuffavano o litigavano, ma in ciascuno di loro c’era una sorda risolutezza, un ferreo accanimento.
Ma’ si voltò di spalle per non vedere. “Non possiamo andare avanti così,” disse. “Dobbiamo mangiare da soli.” Si udì il rumore della pentola raschiata, poi il grumo di bambini si sciolse e i bambini si allontanarono e lasciarono a terra la pentola raschiata. Ma’ guardò i piatti vuoti. “Mi sa che a nessuno di voi glien’è toccato abbastanza.”
Pa’ si alzò e si allontanò dalla tenda senza rispondere. Il predicatore sorrise tra sé e si sdraiò per terra, con le mani intrecciate sulla nuca. Al si alzò in piedi. “Devo aiutare un tizio colla macchina.” Ma’ raccolse i piatti e li portò fuori per lavarli. “Ruthie, Winfield,” chiamò, “andate subito a pigliarmi un po’ d’acqua.” Gli porse il secchio e i due bambini si avviarono verso il fiume.
Una donna alta e grossa veniva verso la tenda. Aveva il vestito striato di polvere e chiazzato d’unto. Sporgeva il mento con aria fiera. Si fermò a qualche metro di distanza e lanciò un’occhiata bellicosa a Ma’. Infine si avvicinò. “Buongiorno,” disse freddamente.
“Buongiorno,” disse Ma’, e si alzò da che era ginocchioni, e spinse una cassa verso la donna. “Si vuole sedere?”
La donna rimase dov’era. “No, non mi voglio sedere.” Ma’ le lanciò un’occhiata interrogativa. “La posso aiutare in qualche modo?”
La donna si mise le mani sui fianchi. “Mi può aiutare se bada ai figli suoi e lascia in pace i miei.”
Gli occhi di Ma’ si spalancarono. “Ma io non ho…” cominciò.
La donna la fulminò con lo sguardo. “Il mio bambino è tornato che puzzava di bollito. È stata lei a darglielo. Me l’ha detto lui. È meglio se la pianta di farsi bella perché voi avete il bollito. Non va bene. Ho già abbastanza rogne senza bisogno che mio figlio viene e mi fa ‘Noi perché il bollito non ce l’abbiamo?’.” La sua voce tremava di rabbia.
Ma’ si avvicinò. “Ora si deve sedere,” disse. “Si deve sedere, così parliamo un po’.”
“No, non mi voglio sedere. Io cerco di far mangiare la mia famiglia e m’arriva lei col bollito.”
“Mi spiace,” disse Ma’. “Mi sa che quello era l’ultimo bollito che mangiamo finché non troviamo lavoro. Se lei stava facendo il bollito e un mucchio di marmocchi si metteva lì a guardare, che faceva? Non n’avevamo abbastanza manco per noi, ma quando ti guardano così non ti puoi tenere la roba tutta per te.”
La donna lasciò cadere le mani lungo i fianchi. Per qualche istante interrogò Ma’ con lo sguardo, poi si voltò e si allontanò rapidamente, ed entrò in una tenda e richiuse i teli dietro di sé. Ma’ restò a guardarla per un po’, poi si rimise ginocchioni accanto alla pila di piatti di stagno.
Me lo ricordo bene questo passo. Anche perché al centro c'è lei, Ma', un personaggio che ho trovato immenso. E in suo onore posto qui la descrizione di questa madre, così come Tom, il suo figlio più sfortunato e amato, la vede:
RispondiEliminaGuardava nel sole. La sua faccia carnosa, senza esprimere dolcezza, era affabile, e disciplinata. Gli occhi marroni sembravano aver sperimentato tutte le tragedie, scalando a grado a grado il dolore fino alla vetta, per spaziare nelle supreme sfere d'una comprensione e d'una tranquillità sovrumane. Sembrava conoscere, accettare, gradire la sua posizione: era la cittadella della famiglia, la roccaforte inespugnabile. E siccome i mali e le paure potevano offendere il babbo e i bambini solo quand'ella ne avesse ammesso la sussistenza, aveva adottato il sistema di negarla. E poiché in ogni ricorrenza il babbo e i bambini guardavano lei per leggerle in volto i segni della gioia, ella s'era avvezza a crearla fuor da un nonnulla. Ma più balsamica che la gioia era la calma che palesava. La famiglia sapeva di poter contare sull'imperturbabilità della mamma. E dall'alta, umile posizione che occupava in casa, ella aveva derivato dignità, e una nitida, calma bellezza. Dalle loro funzioni risanatrici le sue mani avevano derivato sicurezza, freschezza ed efficienza. Nelle sue funzioni di arbitro ella era diventata remota ed infallibile come una dea. Si rendeva conto che, se vacillava lei, la famiglia tremava; se lei tentennava o disperava, la famiglia crollava.
Mi commuove ogni volta che leggo. Un romanzo immenso, per me il più grande del Novecento (ne ho scritto un post nel blog anni fa). Ho avuto la fortuna di leggerlo nel periodo di lockdown, spinta da un video di Alessandro Baricco scovato su You Tube in cui dedicò una serata al celeberrimo grande classico americano. Lo possedevo da tempo ma attendeva sullo scaffale e lasciami dire che leggerlo in età matura è un vero dono. A questa età cogliamo tanti aspetti dell'umanità che a vent'anni sarebbe impensabile comprendere fino in fondo, anche per i più dotati.
Furore è qualcosa che mi ha travolto. È pure un romanzo storico con il coraggio della verità, racconta realtà che la Storia americana detesta ricordare, racconta di torti, di emigrazione. Di miseria più nera, di come si possa essere traditi dal proprio stesso Paese con l'illusione di una chimera come quei grappoli di uva da spiccare dalle viti californiane. E quel finale! Oddio, immenso. È il romanzo PERFETTO.
Quando leggo storie così belle ed emotivamente coinvolgenti, poi aspetto qualche giorno prima di buttarmi su una nuova lettura. Rimugino su ogni cosa e quei personaggi, talune situazioni, i dialoghi, mi frullano a lungo in testa. Questo libro mi ha scaraventato dentro una realtà che spesso ignoriamo dal profondo, mi ha fatto toccare con mano la povertà vera e la dignità delle persone afflitte dall'ingiustizia della vita. Ma' è un personaggio incredibile, hai ragione, la sua forza e la sua speranza, che non muore mai, la ergono a eroina in mezzo a tanto disastro. Ma tutte le figure sono azzeccate: il predicatore, lo zio con il suo senso di colpa perenne, Tom, e quei due marmocchi dispettosi e così vispi nonostante le condizioni. E il finale... avevi ragione: me lo sono goduto in silenzio, una sera, così nessuno si è accorto delle mie lacrime di commozione. Difficile adeguare qualunque narrativa a un testo del genere!
EliminaUn passo commovente, quanto quello che è capitato a me sul romanzo di Sujata Massey "L'amante di Calcutta" (pessima traduzione di The sleeping dictionary, il dizionario da camera, con cui venivano chiamate le concubine indiane degli ufficiali inglesi, che qui ha un significato politico). E' ambientato nell'India della dominazione inglese verso l'indipendenza, seguendo la vita travagliata della protagonista, unica sopravvissuta di una famiglia povera inghiottita da uno tsunami (e per altro l'hanno salvata dall'acqua ma non le danno da mangiare perché appartiene a una casta inferiore, potrebbe "sporcare" la ciotola che le viene offerta...). Diventata donna, si ritrova a Calcutta, come curatrice di una biblioteca privata. Nel febbraio del '43, in seguito ai bombardamenti dei giapponesi, manca il riso nel Bengala, perché viene prima riservato ai soldati in guerra, poi alla varie caste e agli ultimi, i poveri, non resta nulla. La città viene invasa di affamati, ammassati lungo le strade, non possono nemmeno più mangiare il riso bollito normale, il loro stomaco accetta a mala pena il "phan", l'acqua ricca di amido che restava nella pentola dopo la cottura del riso. E' un capitolo davvero difficile. E ho provato, seppure si tratti di un romanzo storico, di fantasia, di eventi passati, la tua stessa impotenza. Da qualche parte, la Storia si ripete... :(
RispondiEliminaQuesto me lo segno. Quando leggo, mi piace essere coinvolta in storie difficili, vere. Anche se poi devo portarmi dietro quintali di fazzoletti di carta!
EliminaÉ un classico ma non l'ho ancora letto, lo ammetto. La "guerra tra poveri" è purtroppo uno dei cardini su cui si reggono le elites di potere, fanno sempre credere a una categoria di poveri che il loro peggior nemico è costituito da un'altra categoria di poveri.
RispondiEliminaIl brano che hai citato segue il canone in base al quale il povero spesso è anche altruista sebbene povero, non credo che sia sempre vero, comunque è difficile non sentirsi toccati dalla voglia di essere generosi di fronte a bambini che stanno morendo di fame.
Sì, i bambini per me sono intoccabili e qualunque cosa, situazione, evento li riguardi o li coinvolga ha un'attenzione particolare da parte mia.
EliminaA proposito di quello che dici sull'altruismo dei poveri, c'è un passo che ho sottolineato nel libro che dice esattamente la stessa cosa:
"Quando stai male o magari hai bisogno o sei nei guai...va' dalla povera gente. Soltanto loro ti danno una mano... soltanto loro", lo dice Ma' (la mamma) all'uomo che lavora nella bottega della fattoria dove la famiglia Joad trova alloggio lungo il suo peregrinaggio.
Un gran libro, Ariano. Te ne consiglio caldamente la lettura.
Cara Marina, questa recensione arriva a fagiuolo! Ho ereditato un bel po' di libri e tra questi c'è anche lui e mi riproponevo di leggerlo appena terminato Chandler! Sai cosa mi colpisce di questo brano? La straordinaria verità che c'è nella vita umile, quella verità che Ma' somministra alla donna e cui non si può resistere. E la grande capacità dell'autore di scrivere in un linguaggio gergale senza mai apparire volgare o misero. E' un brano pieno di colori. Grazie e ben tornata dalle vacanze! (ma lo indossi ancora anche a Roma quel cappellino???)
RispondiEliminaBen tornata anche a te! (Cappello dismesso, conservato per l'anno prossimo!) :)
EliminaSteinbeck un grande scrittore, la sua prosa è chiara, scorrevole e descrittiva nel modo giusto. Sai, quella regola dello show don't tell... lui scriveva nella prima metà del secolo scorso e già "mostrava" nei suoi scritti con una straordinaria capacità di catapultarti in mezzo alla scena. Ho amato il suo stile. "Uomini e topi" mi aspetta nella libreria. Tu affrettati a leggere questo, ne vale la pena.
Senz'altro!
EliminaEh sì, fa davvero venire il magone questo brano. La fame dei bambini fa sempre più male.
RispondiEliminaCi sono diversi passi che ti fanno diventare il cuore quanto una lenticchia, ho scelto quello più intenso. Che poi, Steinbeck descrive queste situazioni di degrado massimo senza a mio avviso trascendere mai nel patetico. Per questo l'ho particolarmente apprezzato.
EliminaSto leggendo Furore proprio in questo periodo. Contrariamente a te, sto impiegando una vita a terminarne la lettura, nonostante sia sicuramente un bellissimo romanzo che apre a molte riflessioni. Il passo che hai riportato nel tuo post ha suscitato in me le tue stesse sensazioni e mi ha fatto pensare a tutte le famiglie che adesso sono travolte dalla guerra o sono divise da viaggi in mare, ogni giorno alla ricerca di un pezzo di pane e di una vita dignitosa. Credo che ciò che colpisce maggiormente in questo romanzo sia proprio questo: sembra appartenere a un passato lontano ma è tristemente ancora attuale per troppe persone.
RispondiEliminaUn saluto.
Sì, capisco che il romanzo possa arrivare in maniera differente al lettore, è normale. A me, al di là della vicenda, ha molto colpito lo stile di Steinbeck, che non scade mai nel patetico e descrive tutto con una lucidità quasi giornalistica, ma nello stesso tempo molto umana. Nei personaggi che tratteggia c'è un universo di caratteri e caratteristiche riscontrabili in ogni persona ed è disarmante fotografare situazioni reali e viverle come se le avessimo davvero davanti agli occhi.
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