giovedì 24 ottobre 2019

Aspettative e delusioni. Un bilancio quasi sempre in negativo.



Nulla uccide più delle aspettative deluse.
L’attesa trepidante, che si gonfia giorno dopo giorno e finisce per abbattersi contro il muro del niente; l'attesa, che è il più piacevole degli stillicidi, perché plasma speranze e il più velenoso dei passaggi obbligati, quando la realtà ci consegna il fallimento.

Di aspettative siamo tutti esperti, ma la nostra reazione di fronte a quelle deluse rivela quanto siamo impreparati ad affrontarle. 

Parto da ciò che per alcuni è vita: scrivere.

Anche quando affermiamo convinti di scrivere per noi stessi, inconsciamente vorremmo deliziare qualcuno: è inutile negarlo, scriviamo per occhi che non siano soltanto i nostri e, se anche le storie che raccontiamo fanno la fine di tutte quelle chiuse nel famoso cassetto, esse hanno avuto quantomeno l’attenzione di un amico, di un parente, di un membro della famiglia, di un lettore fidato, che, con la scusa di assumere il ruolo di beta-reader, ha attribuito a ciò che abbiamo scritto la dignità di un’opera “da leggere”.

Nutriamo un’aspettativa per così dire individuale, quando proiettiamo sulla narrazione che stiamo portando avanti il desiderio che venga fuori esattamente come l'abbiamo immaginata e questa aspettativa, spesso, è la prima a essere delusa: il lavoro non raggiunge mai la sufficienza, lo troviamo sempre pieno di difetti, non bastano revisioni, riletture, ci sarà sempre qualcosa che ci convince poco, che andrebbe migliorata, rifinita, ripulita. È una paranoia assurda che non dà tregua (quando, ovviamente, l’idea è quella di non accontentarsi di una versione scritta di getto o curata giusto il minimo.)
Negli ultimi mesi mi sono data alle storie brevi; per adesso mi regalano una maggiore soddisfazione in termini di gestione complessiva della trama: il percorso è più circoscritto (ma non per questo più semplice), la linea che da A porta a B non si perde in mezzo a mille strade possibili, resto concentrata sull’obiettivo che voglio raggiungere, sul messaggio, che in un romanzo risulterebbe diluito e correrebbe il rischio di annullarsi nella lunga percorrenza.
Ebbene, le mie aspettative su un racconto mi portano a stare dietro a quel numero ristretto di pagine con un’ossessione che rasenta la maniacalità. Ogni cosa deve funzionare, una virgola deve fare la differenza, una parola in un dialogo deve significare tutto nel contesto in cui è inserita e questo tipo di premura, che genera la speranza di avere scritto alla fine un buon testo, deve poi vedersela con la certezza di essere riuscita nell’intento. 
Da qui un secondo tipo di aspettativa, quella che esce dalla sfera personale e si affida al pubblico. 
Abbiamo due strade a disposizione, una a rischio ridotto di delusione, una ad alto potenziale di sconforto: se facciamo leggere la nostra storia a poche persone, il ritorno sarà limitato a un giudizio di parte, perché ci mettiamo in mostra con amici e parenti e non è esattamente la stessa cosa che ricevere il consenso di lettori sconosciuti. 
Se ci lanciamo nella mischia, l’ansia da prestazione aumenta, il desiderio di piacere alla gente accresce le nostre aspettative e allora l’attesa del riscontro di un concorso letterario, della risposta di un agente, di un consulente, di un editore, diventano montagne da scalare. E, quando dopo un lavoro infinito di rifinitura che ci ha dato la soddisfazione di ritenere la nostra opera finalmente compiuta, arriva chi di dovere e boccia senza appello quanto abbiamo scritto, magari dopo esserci sfiancati dietro attese infinite, il recupero della fiducia nelle nostre capacità è lento, se non azzerato. E tutto l’apparato di sogni, speranze, desideri non è più che un castello di carte sul quale qualcuno ha drasticamente soffiato. 
Ci eravamo visti, trionfanti, firmare contratti con mega case editrici, rispondere alle domande di giornalisti per interviste pubblicate sulle riviste più famose, sommersi dalle royalties, dagli applausi, dal consenso generale; protagonisti di presentazioni affollate, contesi da editori stranieri e - perché farcelo mancare - ci siamo visti persino alle prese con sceneggiature per il cinema o la televisione tratte dal nostro indiscusso capolavoro (parliamoci chiaro, se uno vuole sognare lo deve fare in grande.)
E poi?
Sbang! 
Arriva la bastonata. 
Ci svegliamo e rimaniamo intontiti a leccarci le ferite, col culo per terra, su un palcoscenico vuoto, le case editrici a tirarci addosso le bucce delle noccioline e l’unica carezza dell’amico che ci dice che, dai, in fondo siamo bravi.
Quanti si sono visti con il bottino del Premio DeA Planeta in tasca? E quanti hanno subito la schiacciante delusione di rimanere gli scrittori invisibili che sono sempre stati?

Sono partita dall’arte che più amo, la scrittura, ma il discorso è ovviamente estensibile a molti altri settori. In tutti quelli che ho sperimentato, mi è piaciuto coltivare un’aspettativa, sapere di avere lanciato un seme nel vuoto, aspettare la svolta. Il fatto è, però, che quando questa aspettativa si è sgonfiata come un palloncino bucato, ho sofferto.

Mi chiedo se valga ugualmente la pena caldeggiare un desiderio a fronte del rischio di rimpiangerlo per il resto della vita.












60 commenti:

  1. Credo sia normalissimo.
    E no, non ti dirò che è meglio non avere aspettative, perché tutti le hanno.
    Delusioni? Ovvio. Ma anche io penso sempre, ogni volta che entro in una libreria o giro per la blogosfera: perché proprio io dovrei spiccare? Perché proprio io dovrei piacere?
    E allora sì, davvero, vado ugualmente perché capisco che faccio comunque ciò che fa stare bene me :)

    Moz-

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    1. Io metto sulla bilancia il piacere che provo a fare certe cose, con tutto il benessere che ne ricavo e le conseguenze maturate in termini di obiettivi realmente raggiunti. Il piatto pende sempre da questo lato. Sto bene, è vero, quando scrivo, è proprio un godimento, però mi dispiace molto sapere che ogni sbocco è fortemente limitato. Vado ugualmente anch’io, me ne frego, però ammetto che nel tempo tutte le aspettative maturate e poi deluse mi hanno sfiancato.

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    2. Penso sia normalissimo, ripeto.
      Perché in fondo, un po', uno ci spera sempre.
      Ti capisco.

      Moz-

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    3. E comunque, davvero, ma non potevo scegliermi un hobby meno “camurrusu”? 😁

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    4. Ma io mi domando: "camurrusu", da dove viene? Ha un legame con "camorra"? Perché su Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Camorra) l'etimologia non si avvicina nemmeno un poco a "scocciatura".

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    5. Copio dal risultato di una ricerca sul web:

      “In Si­ci­lia la sfu­ma­tu­ra di si­gni­fi­ca­to è più leg­ge­ra e or­mai pri­va di con­no­ta­zio­ni cri­mi­na­li, tan­t’è che se­con­do il Nuo­vo di­zio­na­rio si­ci­lia­no-ita­lia­no del 1876 di Vin­cen­zo Mor­til­la­ro de­ri­ve­reb­be da “go­nor­rea” o ad­di­rit­tu­ra dal to­sca­no ca­mòr­ro, cioè “ma­lan­no”. “

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    6. Hai scelto l'hobby che ti fa star bene, anche con tutte le speranze deluse.
      E va bene così: w la scrittura e la camurrìe :D
      Un saluto anche a Michele! **

      Moz-

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    7. Ma sì, W la scrittura: parlo, disquisisco, formulo teorie e poi sono sempre lì davanti a uno schermo, a inventare storie! 😄

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    8. Ciao grande! (massì: usiamo pure il blog di Marina per parlare tra di noi :D :D)

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    9. Nessun problema per me, anzi! 😉

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    10. Ahaha, ma alla fine il blog è anche un salotto, quindi ci sta, se comunque si affronta il tema :D

      Moz-

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  2. Certo che uno potrebbe pure scegliersi degli hobby più alla portata. Chessò, tipo ballare: uno si può accontentare di vincere la gara di ballo della sagra dell'asparago, senza pretendere di partecipare a un campionato del mondo di danza. Che poi, anche senza gare, se sei bravino hai la fila delle dame che vogliono farsi un giro di valzer...
    Invece, Helgaldo docet che Mozzi docebat, già 999 manoscritti su 1000 sono da buttare, e quello che rimane finisce in un mare magnum di cose generalmente più interessanti e scritte meglio. D'altronde, pensa: siamo 60 milioni (tutti scrittori, a quanto pare) e io non saprei dire 20 nomi di italiani viventi che valga la pena leggere. Probabilmente non saprei fare 20 nomi nemmeno estendendo il periodo fino al '700. A me la cultura manca, ma tu quanto potresti fare di meglio? Insomma, diciamocelo: è più probabile fare 6 al superenalotto che scrivere un romanzo di successo. Anche perché per la tombola basta il fattore Q, mentre per scrivere bisogna avere talento e soprattutto, soprattutto, per usare una espressione francese a me cara: "farsi un mazzo tanto". :D

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    1. È esattamente tutto quello che dici che mi porta a vedere l’attività che svolgo con tanta caparbietà come un’enorme bolla d’aria: infatti, negli ultimi tempi mi sono affezionata più alla sagra dell’asparago e un giretto di valzer arriva persino a darmi qualche soddisfazione in più che pensarmi ballerina da campionato.
      Sono arrivata a questa serena conclusione dopo avere insistito con quelle aspettative di cui ho parlato. Per questo chiedo se ne vale la pena o se, piuttosto, non fosse più remunerativo accontentarsi di quel poco ma buono che possiamo raggiungere, in poche parole se una sana modestia possa evitare di trasformare la sconfitta in frustrazione.

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  3. Io non sogno l'impossibile. Arrivare da un editore non mi darebbe soddisfazione. Mi conosco e conosco gli editori, conosco i loro modi di selezionare, o di non farlo. La dimensione del self-publsihing fatto bene, a modo mio, mi sta molto bene. Cioè che mi lascia perplesso è se ha senso continuare sapendo di non aver coltivato lo zoccolo dei lettori. Marche famose le vedi sempre un TV, lo stesso Stephen King che ha scritto un tal numero di opere di cui ho perso il numero (forse più di 70) ha bisogno di fare pubblicità per non perdere quanto ottenuto fino a quel momento.
    Io non, ragionando in modo freddo e obiettivo, non voglio creare serie TV dalle mie storie, o film, anche se in passato ci ho pensato. A me danno soddisfazione un certo numero di lettori come te che hanno visto nelle mie opere in profondità più di quanto io avessi alla fine capito.

    Per quanto riguarda la complessità delle storie. Tu dici di darti al racconto. Può stare benissimo, ma potresti anche spingerti a una novella se senti di voler dare più spazio a una storia ma non non tanto da arrivare a un romanzo.

    In genere, certe storie vogliono essere raccontate, poi la dimensione dipende da quanto riusciamo a capire di voler approndire o meno un tema, un personaggio, oppure di non volerlo fare perché magari volevamo ritrarre, non so, la scena di una persona che esce dal lavoro, affronta la pioggia e risale casa. Punto.

    Lavorare a un romanzo si può solo avendo in mente tutta la storia prima di scriverla, in modo da non perdersi nei meandri di ciò che la scrittura al buio può portare. Quanto meno partire con un inzio (che poi puoi pure riscrivere a libro ultimato), sapere quale sarà il climax e quale il finale, lavorare poi sui personaggi mettento giù una scheda per le scene, oppure elaborando mentalmente. Il fatto è che comunque serve molto tempo.

    Se a te piace scrivere, scrivi. A me piace e scrivo. Pubblicare, essere letto, sì, è bello, ma forse meno bello perché si affronta una realtà non sempre piacevole. Tanti sforzi, ma poi? Boh. Soddisfazioni qualcuno, ma l'essere umano non vive di poche soddisfazioni, ne vorrebbe tante, almeno parlo per me. Ho la necessità che qualcuno mi dica qualcosa sui miei testi.

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    1. Sperare di accrescere lo zoccolo di lettori, come dici, è un’aspettativa che, spesso, ci lascia delusi. In piccolo, anche con il blog viviamo questa attesa: che qualcuno venga a leggere e commentare gli articoli, perché così abbiamo la misura di quanto ciò che diciamo viene apprezzato.
      Tu hai la necessità che qualcuno legga i tuoi testi e ti dica qualcosa: quando scrivi lo fai sperando che questo accada. Non scrivi e basta. Ed è quello che faccio anch’io: vorrei testare la mia bravura o no senza che a darmi la pacca sulle spalle siano amici e parenti. Eppure, la strada è lunga e non sempre la volontà è tenace. Io ho mollato un po’ e sono qua a fare bilanci, a chiedermi se fare ciò che fino adesso ho fatto sia valsa la pena. Forse sì, non lo so, ciò che so è che la mia prospettiva è cambiata: adesso ho pretese meno elevate e, devo dire, convivo meglio con le mie ali basse. 😉

      Per il resto, ho tre romanzi fermi per mancanza di “struttura solida”: vacillano in mezzo a tante cose indeterminate che cercano soluzione. Per ora non mi va di cercarle, ma sono là e nessuno le elimina, magari un giorno...

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    2. Forse il problema è non dedicare costanza alla scrittura. Non avere in mente climax e finale prima di iniziare. Magari hai tanti altri impegni e mentre stai per avvicinarti un po' più a fondo nel testo, devi interrompere per giorni o settimane. A tal punto ti coglie una nuova ispirazione e lasci perdere quanto scritto finché poi hai altre esigenze che interrompono di nuovo il processo. Per questo motivo ho almeno 2-3 romanzo appesi anche io.

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    3. Sì, Giovanni, indubbiamente la costanza è un elemento fondamentale che manca nella mia quotidianità. Per ora mi faccio bastare quello che faccio, ma non potrebbe mai essere sufficiente a portare avanti un lavoro lungo come quello richiesto da un romanzo.
      Io, delle mie storie, conosco inizio e fine. È come ci devo arrivare che mi fa confondere! :)

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  4. A me piace scrivere ma non mi riesce altrettanto bene come ad altri, te ad esempio. Penso sia "normale" avere delle aspettative e non solo in questo campo, ma ovunque ci sia qualcosa che ci appassiona. Che poi vengano quasi sempre deluse, ci sta, si soffre, è una cosa alla quale mi sono abituata. Ma tutto ciò non mi fermerà dallo scrivere ancora e lasciare tutto nella sua "giusta" dimensione, il mio blog. I primi anni volevo essere perfetta, più mi applicavo più sembravo artefatta. Ora ho smesso e scrivo perché mi va di scrivere. Basta. Non mi chiedo più se possa piacere o meno a qualcuno, l'importante è che piaccia a me, che mi soddisfi. Comprendo però, come nel tuo caso, che scrivi romanzi e racconti, le aspettative siano più alte come maggiore sia la pena quando vengono deluse. Io penso che valga in ogni caso la pena di provarci e di continuare a correggere, sistemare, perfezionare. E sì, quel desiderio va sostenuto sempre, nonostante le sconfitte.

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    1. Io pensavo di avere fatto il callo con le aspettative deluse, invece ogni volta mi si rinnova la delusione ed è una sensazione che non mi piace, anche perché trovarmi sempre davanti alla mia mega insicurezza non mi aiuta ed è questo che accade, purtroppo. Scrivere per il blog, invece, mi rilassa, le aspettative sono di natura diversa e la delusione è minima: di cosa posso lamentarmi, di avere avuto scarsi consensi? Vabbè, è una preoccupazione che non ho, come non so seguire statistiche e visualizzazioni, non mi interessa, anche se, ovviamente, quelle poche volte che ho la curiosità di conoscere l'entità del feedback, mi fa piacere verificare che ho un bel ritorno.
      Il mondo della scrittura creativa è un’altra cosa ed è lì la fregatura: non voglio piacere solo a me stessa, scrivo per piacere a chi mi legge, ma le aspettative, quando per esempio ho partecipato ai concorsi letterari, mi hanno gasato durante l’attesa e poi abbattuto di fronte agli esiti negativi.
      E lì, a dirmi: “ma ero certa di avere scritto una storia incredibile, ma perché non è piaciuta, ecc ecc” e non sai mai cosa sbagli, dove devi migliorare ciò che credevi perfetto. Vivere tutte le volte questa sensazione mi ha stancato, anche perché ne faccio anche un fatto di età, ma questo è un altro discorso ancora.

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    2. Ecco, deve essere frustrante non comprendere il perché non hai convinto e cosa non è piaciuto. Ti darebbe un "metro" migliore dal quale ripartire.
      Comprendo bene anche l'altro discorso a cui hai solo accennato: l'età. Conta eccome, sia per quel che riguarda il lavoro sia per le passioni esercitate.

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    3. Sai cosa mi piacerebbe?
      Io non temo la critica, affatto, se no non cercherei il consenso del pubblico: mi espongo e so a cosa vado incontro. Allora mi piacerebbe che, quando vengo scartata a una selezione, che sia per un concorso o da parte di un editore, mi si dicesse :”grazie per aver partecipato, ma non andava bene questo e questo e quest’altro”; un mini giudizio giustificativo della bocciatura. Avrei un punto fermo da cui far partire le mie valutazioni. Certo, un tantino complicato, soprattutto visto, spesso, la mole di partecipanti, però sarebbe bello, sì!

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    4. Infatti, è quello che suggerivo.
      Ma non so quanti di quei "capoccioni" che si ergono a critici letterari nei vari concorsi, saprebbero motivare la bocciatura con un ragionamento scevro di preconcetti. Non so a volte ho l'impressione che si segua una linea di giudizio dettata dal mercato, piuttosto che farsi guidare dall'emozione pura che, un racconto scritto bene e con il cuore, riesce a dare.

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    5. Anche lì aspettative, vedi? Che il giudizio non sia guidato dal pregiudizio, che si segua la logica della buona scrittura, senza stare dietro ad altre esigenze ... Non se ne esce più! 😅

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  5. non lo so se vale caldeggiare un desiderio a fronte del rischio di rimpiangerlo. non lo so. a volte, però, raggiungo una piazzetta vicino a casa mia, davanti a una chiesa. guardo il parroco, un omone sudamericano. lo osservo intrattenersi con gli anziani e i bambini. in lui vedo gesti d'amore, vedo sorrisi amorevoli. allora mi chiedo se è davvero importante che, dopo la morte, ci sia la vita eterna. lo chiedo per lui, non per me. e mi rispondo, tutte le volte mi rispondo così e quindi comincio a credere che almeno per me abbia un fondamento, che è importante zero che dopo la morte ci sia qualcosa, perché lui ci crede e questa sua convinzione gli riempie la vita. e allora è vita ben spesa, anche a fronte della più cocente delle delusioni (della quale, son ben d'accordo, non si renderà neppure conto, ma poco cambia nell'economia di questo mio "pensiero").

    non so neppure se scriviamo per qualcun altro o per qualcos'altro. forse (ed è un "forse" con un punto interrogativo grosso da qui a lì) scriviamo per noi stessi, affinché i nostri pensieri diventino parole e da qui azioni, e da qui realtà.

    riguardo alle aspettative, però, una cosa la so: zero aspettative. non hanno modo di esistere. le aspettative sono "ciò che faremmo noi". e gli altri, ciò che accade, ciò che permettiamo accada, non siamo noi.

    non rileggo questo commento ché mi sembra la fiera della banalità, so che mi perdonerai. je t'embrasse

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    1. Nessuna fiera, mi pare invece interessante la tua prospettiva: è bello che si creda in qualcosa ed è bello riconoscere in qualcuno questo desiderio e questa energia. Quando vedo la tenacia con cui molti autori emergenti provano a farsi conoscere dico: bravi, ne hanno la forza, ci credono, la loro convinzione gli riempie la vita e la loro vita è ben spesa. Su di me questo lavoro passa da una serie di pensieri seccanti che, invece, frenano ogni entusiasmo. Immagino che ognuno viva le proprie aspettative come opportunità che sarebbe un errore eludere oppure come generatrici di stress, dunque evitabilissime.Hai capito a quale categoria di “sognatori” appartengo.

      Le aspettative sono ciò che faremmo noi?
      Vero, magari dipendesse solo da noi tutto quello che vorremmo si realizzasse nella nostra vita!

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  6. La delusione è umana, soprattutto a fronte di un fallito obiettivo cui si teneva molto. D'altro canto però, il fallimento ad alti livelli è un po' la norma per la maggioranza. Io uso sempre un esempio che per l'Italia si adatta benissimo: quanti ragazzini sognano di diventare calciatori professionisti in serie A? Tantissimi. Quanti giocano in squadre giovanili e fanno provini presso società più importanti? Tanti. Quanti effettivamente arrivano in serie A? Pochissimi.
    Quindi, se l'obiettivo era giocare in serie A, una volta fallito quell'obiettivo bisognerebbe mollare tutto. Eppure... eppure ogni fine settimana in Italia si giocano centinaia di partite. Le dieci di serie A, poi quelle di serie B, la serie C... ma sommando le partite di queste serie non si arriva neppure a cinquanta partite. E chi le gioca le altre centinaia? Chi sono i calciatori che disputano match nei Dilettanti Nazionali, in Eccellenza Regionale, in Promozione? Chi sono coloro che, praticamente gratis, si allenano durante la settimana e la domenica giocano in campacci di terra battuta con una tribuna scoperta in cui una trentina di pensionati e di parenti fanno il tifo per loro? Chi sono questi sfigati che si ostinano a correre su e giù con la maglia di una sconosciuta squadra di paese o di quartiere per segnare un goal, per conquistare tre punti, per avere la soddisfazione di vincere il Torneo di Promozione Regionale (eh, sai che importanza, spesso li ignorano gli stessi abitanti del paese o del quartiere al quale la squadra appartiene)? Chi sono quegli uomini? E chi glielo fa fare?
    ... forse sono solo ragazzini ai quali piaceva giocare a calcio, pazienza se non sono arrivati in serie A. Non è che l'abbiano presa con filosofia, saranno rimasti delusi pure loro. Però se lo scopo era solo diventare dei campioni e basta, se già arrivare in serie B e lì fermarsi sarebbe stato un fallimento, beh, allora forse erano bambini a cui non piaceva "giocare a calcio" ma "fare le star".
    Personalmente ogni volta che leggo ciò che scrivo sono il primo a rendermi conto che non posso ritenermi all'altezza della pubblicazione. Però pazienza. A me piace scrivere, creare storie (ora anche fumetti come sai) e non credo che abbia senso farne a meno perché non sono abbastanza bravo. Si vive una volta sola, meglio fare le cose che ci piacciono (sia pure in modo fallimentare) piuttosto che diventare passivi esecutori di gesti quotidiani fatti con le stessa modalità di un automa.

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    1. Sono molto d’accordo. Lo stesso potrebbe dirsi di chi ha una bella voce e sogna di andare a San Remo (forse, oggi, sognerebbe di più il palco di X factor 😁), ma al di là dei molti esempi calzanti, non lamento tanto la pretesa di diventare una star in campo letterario, quanto il pensiero di formulare un sogno impossibile. Alla fine anch’io scrivo perché mi piace e non smetto certo perché non posso vincere il Premio Campiello, però bisognerebbe essere più consapevoli di tante cose, proprio al fine di evitare le delusioni inevitabili: al dilettante calciatore basta sapere di potersi divertire anche correndo su un campo per una partita di campionato regionale. E io volevo dire esattamente questo: riconoscersi capaci di fare bene quello che si fa nel proprio livello, senza “aspettare” i miracoli che non ci meritiamo (se non ce li meritiamo.)

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    2. E tu sei capace, credimi, sai scrivere bene, quindi puoi divertirti anche nella serie D di noi scribacchini dilettanti ;-)

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    3. Mi iscrivo al prossimo campionato seniores regionale di scribacchini dilettanti. Mi pare un’ottima idea! 😉

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  7. Io sono convinto che persino Michelangelo, se rivedesse oggi il suo Mosè a distanza di secoli, avrebbe qualcosa da ridire e perfezionare. E non esiterebbe, scalpello in mano, a farci delle modifiche. Toglierebbe quelle corna, ad esempio... :-P

    Il punto è che dove pochi vedono l'imperfezione, molti vedono la perfezione.
    E spesso, tra quei "pochi", ci sta anche lo stesso artista quando riguarda (o rilegge) la sua opera.

    (Varrebbe anche il contrario: dove pochi vedono la perfezione, molti vedono l'imperfezione, e con questo si torna al discorso della "merda d'artista" o della "merda di scrittore"...).

    Dunque: dato per assodato che la perfezione non esiste, rimane da capire come porsi nei confronti di questo dato di fatto.

    Io credo che chi aspira alla perfezione è destinato a dannarsi nel rivedere e modificare, e quindi a percepire un senso continuo di precarietà nei confronti delle proprie opere.

    Chi non aspira alla perfezione, invece, può divertirsi con la propria creatività.

    P.S.: saresti un ottimo caso per Emme... :-D :-D :-D
    Per una birretta, dico.

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    1. Io lo vorrei conoscere Emme, lo sai, ma niente ipnosi: alle volte venissi a scoprire di essere stata un’amanuense con velleità artistiche elevate, condannata per eresia letteraria! 😂

      Parlando seriamente, non è tanto un discorso legato alla perfezione di ciò che scriviamo, ma di cosa ci aspettiamo dagli sforzi che facciamo. È normale nutrire delle aspettative quando pensiamo di avere espresso il massimo delle nostre potenzialità, ma poi ti fanno capire che quello non è il massimo e la crisi è dietro l’angolo. Mica puoi continuare ad “aspettare” la svolta, magari c’è qualcos’altro che devi saper fare e non te ne rendi conto.
      Io sono arrivata a questa conclusione e allora preferisco non fidarmi troppo dei desideri di felicità che sono sogni... o forse era il contrario! 😋
      Insomma di non dare troppo retta alle favole!

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  8. Non avere aspettative sarebbe molto buddista, ma la realtà è che ne abbiamo, eccome. Chi scrive storie lo fa per condividerle, essere letto. Le delusioni le viviamo tutti in questo campo. Forse la differenza sta nel come si affronta il "dopo". Un conto è gettare la spugna dopo una delusione, altra cosa è andare avanti e cercare nuove strade o provare a capire cosa si è sbagliato.
    La scrittura è una realtà molto competitiva, è fin troppo facile arrendersi di fronte ai grandi ostacoli. Io sono tentata spesso di mollare, ma so che una parte di me ci tiene così tanto a scrivere che le aspettative deluse non bastano ad affossarla. Per ora.

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    1. È giusto, M.Teresa, mollare mai, se ciò in cui si crede è più forte di ciò che si potrebbe ottenere.
      Io non parlo di una mia resa di fronte al nemico più forte, ma di una mancanza di interesse ad affrontarlo. È una fase nell’approfondimento della mia consapevolezza che non mi disturba, anzi mi fa vivere meglio.
      Sarebbe peggio ostinarsi: in fondo, tutti, alla fine, per spirito di autoconservazione, realizzano una condotta che li fa sorridere un po’di più. E io scelgo per un periodo o forse per sempre, questo non lo so, di godermi la mia scrittura senza grandi aspettative. E sto bene. (Anch’io concludo dicendo: “per ora”.)

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  9. Tutto questo si racchiude in una semplice parola: vita. Fa parte della vita sognare, desiderare, avere aspirazioni. Far ruggire il proprio sé con delle passioni è ciò che rende vivo e probabilmente sensato il nostro stare sul mondo.
    Molti falliscono ancora prima di cominciare, non per l'aspettativa, ma per la paura di affrontare qualcosa che metta in discussione quello che si è. Il peggior nemico della paura è la paura stessa.
    Io credo che qualsiasi ambizione o aspettativa si abbia, sarà sempre dura e difficile senza aggiungere la quota del divertimento.
    E’ una cosa che ho imparato di recente. L’aspettativa e la conseguente delusione mi generavano stress. Mi son detto ma sul serio tu vorresti vivere in questo modo qualcosa che dovrebbe essere gioioso?
    E allora bisogna fregarsene. Impegnarsi al massimo è la base, migliorare pure, ma per tutto il resto occorre la leggerezza del viaggio. Fare, fallire e dirsi: beh, poteva anche andarmi peggio.
    E sono del parere che affrontare questa lunga marcia verso i desideri con autoironia, con la voglia di sperimentare, di trovare nuove prospettive di sé, di ridere e sorridere comunque vada, alla fine possa dare frutti migliori.
    Quindi io tento, provo e come dico sempre: più del morire non più capitare. :P

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    1. Ma infatti è un problema di scelte che facciamo per continuare a ridere e sorridere della vita.
      Sembra quasi che la mia riflessione sia lo sfogo di una persona sconfitta dalle continue delusioni e invece è il contrario: è un inno alla bellezza di sapersi fermare quando qualcosa non risponde più a un desiderio. Non ho paura che qualcuno metta in discussione ciò che faccio, mi manca l’interesse di saperlo, che è diverso. Il mio non è fare marcia indietro perché affrontare lo stress della riuscita di un progetto mi spaventa, ma un voltarsi con un’alzata di spalle e dire “ciao, ci si vede.”
      Niente è definitivo, può darsi che un giorno riproverò il desiderio di rimettermi in gioco, per ora semplicemente non ne ho voglia.

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  10. Sì, a volte ho la sensazione che quello che scrivo nelle mie recensioni non venga capito, che non trasmetta le mie stesse emozioni, ma siccome quest'ultime in me rimangono, e siccome quello che scrivo lo scrivo soprattutto per me, non rimpiango niente.

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    1. Io, invece, ne risento, mi dico: dove potevo dare di più? Con cosa potevo fare la differenza? Riempio la mia prestazione di punti interrogativi e, di conseguenza, sono ben lontana dal sentirmi all’altezza di scrivere in un certo modo. Poi, certo, dipende anche dalle pretese che avanziamo nei confronti di noi stessi: e io, lo ammetto, sono molto esigente.

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  11. Questo post mi tocca molto da vicino. Andrò per gradi.
    Hai ragione, non scrivo quasi mai per me stessa.
    O meglio, lo faccio però poi sento l'esigenza di condividere le emozioni che provo nel rileggermi con altri.
    Da quando scrivo per Confidenze, seguo una precisa routine.
    Invio il mio racconto a Riccardo, con la scusa che deve revisionarmi la bozza (non cambia una virgola, ma ha una sensibilità tale da poter cogliere il preciso senso delle mie parole). Dopodiché lo mando a mia madre, poi a mio marito, quindi al protagonista della storia.
    Solo dopo i vari responsi (tra cui soprattutto l'ultimo, per rispetto della verità), mando il racconto al giornale e attendo con ansia il responso della mia caporedattrice.
    I suoi complimenti o i suoi consigli sono per me sempre molto preziosi.
    Tornando al tuo post, vorrei dirti che la meritocrazia nel mondo della scrittura conta poco o nulla, come in moltissimi altri settori.
    Basti pensare che il libro di Giulia De Lellis è in vetta alle classifiche (non chiedermi chi sia, perché mi dà ai nervi solo scriverlo. Se non la conosci, chiedi a Google).
    Pertanto, spero che continuerai a scrivere "per te stessa", affidando i tuoi elaborati a coloro che potranno regalarti emozioni. A noi lettori del blog, ai tuoi figli, tuo marito, ecc.
    Poi, chissà, magari prima o poi diverrai famosa....... partecipando a Uomini e donne. ;)

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    1. I miei figli sanno che hanno un bel po’ di materiale da leggere quando si sentiranno pronti. 😁
      Il consenso di chi mi circonda c’è e dà calore, è vero: certe volte scrivo incoraggiata proprio da queste persone. Ho capito nel tempo che le soddisfazioni possono arrivare anche da ambiti impensati, per esempio l’ultimo racconto mi è stato ispirato da un musicista conosciuto in piscina e mi sono divertita a scrivere “per lui” perché, alla fine, è a lui che ho consegnato la mia storia.
      Ecco, va bene anche così. Forse per ora è questo ciò che cerco e voglio dalla mia scrittura: rimanere una cosa per pochi.

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    2. @claudia wow articoli per confidenze.... momenti di grande letteraura e cultura letteraria... a quando gli articoli per visto? Lulu

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    3. Perdonami Lulu, a parte che ogni genere di scrittura ha una sua dignità e che Confidenze è una rivista rispettabilissima, ma la tua allusione ironica alla grande letteratura e alla cultura letteraria, qui e per quello di cui si sta discutendo, è del tutto fuori luogo.
      Sarebbe bello se tu, invece, mi dicessi cosa pensi della mia riflessione.

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    4. @Lulu, che magnifico sfoggio di benaltrismo. Ma i lettori di Confidenze sono diverse decine di migliaia (tiratura: 80.000 copie, l'anno scorso) e sono tutta gente che paga. Mi domando in quanti paghino per leggere quello che scrivi tu, per dire. Perché è vero che con le storie su Confidenze non ci vincerai il Nobel, ma è innegabilmente altrettanto vero che bisogna essere capaci di scrivere a un livello professionale tala da sostenere una tale tiratura.
      E se il ragionamento ti fa strano, faresti bene a ricordare che anche un certo Guglielmo Scuotilancia scriveva per riempire il teatro di gente, mica per sollazzare i gusti alteri della Repubblica delle Lettere.

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    5. Grazie Michele e grazie Marina.
      Non so cos'abbia questa Lulu contro di me o contro Confidenze, che resta la rivista di punta del gruppo Mondadori, attiva da ben 73 anni.
      In ogni caso, il mio era solo un esempio e mai mi sognerei di ergermi a scrittrice di successo per questa collaborazione redazionale che sono fiera di sostenere da due anni.
      In passato mi sono occupata di tutt'altro, per circa 15 anni, scrivendo centinaia di articoli per testate locali e regionali, ma anche in quel caso non mi definivo giornalista.
      Io scrivo. Punto. Lo faccio per me, per chi mi paga, per chi mi legge e persino per chi mi disprezza (come Lulu).
      Sarà una forma d'arte o di vanità. Non saprei dirlo, onestamente.
      Spero che Marina non perda la voglia di scrivere solo perché non ha (ancora) trovato la giusta dimensione per i suoi scritti.
      Mi dispiace di aver inquinato questo spazio, ma purtroppo si dice che la mamma degli stolti sia sempre incinta, no? 😉

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    6. Confidenze è una rivista di tutto rispetto, tanto che vende e viene letto da anni (io da ragazzina quando leggevo le storie di Confidenze sognavo un giorno di poterle scrivere anch'io) inoltre stiamo parlando di Mondadori, non un editore qualsiasi. Quindi Claudia ti faccio i miei complimenti. Giulia Mancini.

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    7. Ti ringrazio Giulia.
      Per me è un'esperienza meravigliosa, soprattutto perché a livello umano in redazione vi sono persone fantastiche.
      Che volete farci, sono una romantica io... 😉

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  12. So che le aspettative dei primi tempi in cui scrivevo, in cui ho raccolto tanti consensi, mi hanno dato una grande spinta in avanti in termini di impegno e miglioramento, ma fatico a vederle come positive, perché non erano realistiche. Non posso "pentirmi" della mia ignoranza di allora, perché era inevitabile, ma mi dico che forse, se avessi saputo fin da subito che quello artistico non è un percorso che si possa costruire a furia di volontà e lavoro, come altre carriere, certe illusioni me le sarei risparmiate e mi sarei sentita meno abbacchiata quando la realtà si è rivelata diversa. Al tempo stesso, forse va bene così. Sto ancora scrivendo. :)

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    1. È una considerazione che condivido: anch'io qualche anno fa avevo delle aspettative che, poi mi hanno regalato delle soddisfazioni (penso a quando ho vinto il concorso letterario e ho pubblicato "31 dicembre"), ma nel tempo ho cambiato molte prospettive, mi sono fatta più esigente e, di conseguenza, anche le mie aspettative si sono "impreziosite". È un bene che sia nel frattempo maturata e, assieme a me, che sia maturata la mia scrittura, però adesso vivo con meno entusiasmo le conseguenze che potrebbero derivare da essa: potrei dire che me la godo senza pensare a cosa farne.

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  13. È tutta la vita che faccio i conti con le mie aspettative deluse cara Marina, tanto che, in alcuni campi che non riguardano la scrittura, ho smesso di desiderare e di avere aspettative per non restare delusa per l'ennesima volta. Mi sono resa conto però che è meglio avere aspettative (magari piccole) che non averne affatto perché quando smetti di desiderare smetti un po' anche di vivere. Sempre al di fuori della scrittura, io avevo smesso di desiderare e di inseguire alcuni piccoli obiettivi, per non restare delusa, poi mi sono accorta che stavo lentamente scivolando nella depressione perché quando smetti di avere aspettative smetti anche di vivere e combattere, il rischio è quello di lasciarsi andare e pensare che "è inutile affannarsi perché tanto non lo realizzerai", questa almeno è la mia esperienza. Per la scrittura invece c'è un discorso a parte, anche lì le delusioni non sono mancate, ma ci sono state anche piccole soddisfazioni, ciò è il motore che mi fa avere ancora voglia di scrivere, anche se ho rallentato moltissimo...

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    1. Non coltivare aspettative non dev’essere una resa. Io non la vivo così: lasciarsi andare perché la fatica non è premiata è l’ammissione di una sconfitta; invece, se il processo è naturale, non pesa. Poi, sai, molto dipende anche da quanto incide la delusione su un bilancio globale: credo che anche continuare a sperare in qualcosa che non arriva tolga un po’ l’entusiasmo d scrivere. A me è capitato questo e adesso, paradossalmente, senza aspettarmi nulla, ho ritrovato quel piacere di scrivere che si era lievemente offuscato negli ultimi tempi. E preferisco di gran lunga coltivare la mia scrittura per il gusto di farlo che aspettare che qualcuno ne riconosca il valore.

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  14. "Ci eravamo visti, trionfanti, firmare contratti con mega case editrici, rispondere alle domande di giornalisti per interviste pubblicate sulle riviste più famose, sommersi dalle royalties, dagli applausi, dal consenso generale; protagonisti di presentazioni affollate, contesi da editori stranieri e - perché farcelo mancare - ci siamo visti persino alle prese con sceneggiature per il cinema o la televisione tratte dal nostro indiscusso capolavoro (parliamoci chiaro, se uno vuole sognare lo deve fare in grande.)"
    Forse è proprio questo il nucleo, Mari'. Vedersi in questa dimensione di successo e popolarità, andando decisamente oltre il vero potenziale, è nettamente sbagliato. In fondo, anche persone che sono state pubblicate (abbiamo incontrato insieme Postorino e Terranova) non stanno certo vivendo questo scenario glitterato. Forse si ha una visione troppo magica e fantasiosa del mondo dell'editoria di successo. Credo che esempi come Rowlink, King e compagnia bella siano chimere da guardare da lontano.
    Basterebbe forse immaginarsi in una dimensione proprio in stile Postorino e Terranova. Ecco, forse a quello si può ambire. E come sai, la tua scrittura vale. Manca qualcosa? Non so. La storia? Tiro a indovinare. Ma poi non so se stai continuando a inviare manoscritti, sono rimasta a quando hai replicato convinta che non ci avresti provato più. :)

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    1. Ho estremizzato la cosa per fare capire il concetto: spesso, nel pieno dei nostri sogni, ci lasciamo andare a cose grandi, ma per me già è cosa grande arrivare a vincere il premio Campiello. E arrivare tra i finalisti allo Strega non è proprio un goal da quattro soldi! :)

      Non sto inviando più manoscritti: ho dei racconti, ma li sto raccogliendo senza pensare di piazzarli da qualche parte. Chissà, magari un giorno... per ora scrivo senza pretese, anzi con l’unica pretesa di continuare a farlo bene (bene, secondo me, ovviamente. 😉)

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  15. Quando intraprendiamo qualcosa, lo facciamo per raggiungere un obiettivo. Nella scrittura quest obiettivo coincide non tanto con la pubblicazione, quanto con la diffusione della nostra opera, ovvero con il successo. Quante volte ho sognato ciò che tu descrivi e in fondo qualcosa di simile è accaduto. volte basta anche solo un commento sinceramente positivo di qualcuno che ha letto la tua storia per riportarmi a quel livello di felicità cui aspiro sempre quando scrivo. perché una cosa è certa: se scrivessi solo per me, le mie storie resterebbero nel cassetto del mio comodino...

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    1. Se qualcuno mi dice che sono brava sono felice anch’io: i complimenti arrivano sempre graditi, ma qualche volta ho sognato di essere brava anche per qualcuno disposto a credere in me al punto da scommettere sulla mia scrittura. “Crederci sempre” è il motto degli ottimisti. Io non sono pessimista, ma consapevole e questo mi porta a ridimensionare i desideri. Intanto do valore al mio cassetto! 😁

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  16. Credo che il problema non sia la scrittura in sé quanto le prospettive. Perché scrivi? Per vincere il DeA Planeta? Lascia stare. Non perché tu non sia brava (lo sei) ma perché la statistica ti gioca drammaticamente contro. Per scrivere delle storie che ti soddisfino? Per scrivere delle storie che vengano lette (oltre al self ci sono ottime piattaforme on line gratuite per questo)? Per partecipare e vincere concorsi? Per essere pubblicato? Da chi? Ognuna di queste aspettative è lecita e anche realizzabile. L'importante, credo, è capire cosa si vuole, cercare di ottenerlo, sapendo che più si alza il tiro e più le possibilità sono a nostro sfavore.

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    1. Ho provato tutte le prospettive che hai citato: essere letta, vincere concorsi, provare a essere pubblicata nelle riviste letterarie, tutte tranne il DeA Planeta al quale non mi sono neppure avvicinata. Adesso però mi trovo a usare il tempo all’imperfetto: cosa volevo? Cosa cercavo di ottenere? Guardo avanti, perché non mollo la scrittura (e come potrei mai!), però lascio indietro i sogni, li lascio al passato, non sono più una mia priorità. Per questo sono serena e penso che non sto costruendo nuovi rimpianti per il futuro.

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  17. Coltivare delle aspettative è lecito e umano, ma purtroppo l'esito dipende sempre da una fonte esterna davanti a cui ci mettiamo, inevitabilmente, in una posizione di inferiorità e attesa. E la fonte esterna è di tipo umano, con annessi e connessi, anche ammettendo che sia in totale buona fede. Può essere il membro della giuria al concorso che legge (o non legge affatto) il tuo manoscritto, la casa editrice che risponde picche, dopo mesi, l'editore della piccola casa editrice che, magari, pubblica il tuo romanzo salvo abbandonarlo completamente al suo destino, il commentatore astioso e invidioso sui social, il parente o l'amico cui hai regalato il libro che non lo legge e non lo leggerà mai. Insomma, le variabili sono davvero tantissime.

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    1. Le conosco bene le variabili e tutte sperimentate, cara Cristina. Per fortuna, so che parlarne non è sempre uno sfogo. Prendo questo discorso che ho fatto come un sereno aggiornamento sul mio stato attuale. Siamo tutti umani: chi sta di qua e chi di là della barricata. 🙂

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  18. Recuperando le letture rimaste indietro, proprio a causa della scrittura...arrivo qui, proprio dopo aver letto un articolo di Riccardo Scandellari su skande.com dal titolo "L'assioma del successo", con queste precise parole:
    "Se riteniamo che il successo sia dato da ciò che immaginiamo sia importante nella vita, allora possiamo distinguere questi obiettivi in due diverse categorie: quelli interni e quelli esterni.
    Gli obiettivi interni sono riconducibili all’aumentare delle tue capacità, delle competenze o dei valori morali. Quelli esterni hanno a che fare con le gratificazioni materiali, la fama, l’amicizia, il reddito, le opinioni e l’approvazione delle altre persone.
    In pratica, è molto difficile controllare quelli esterni. Possono essere determinati dalla fortuna, dalla lealtà di altre persone o dall’ambiente in cui ti muovi. Tuttavia sono quelli interni su cui puoi lavorare, gli unici di cui potrai attribuirti tutto il merito. Se ci pensi sono anche gli unici che non ti causano frustrazione o ti rendono preoccupato, ansioso."
    Quel che dici, su aspettative e delusioni, vale per tutto, non solo per l'arte. Vale per qualsiasi luogo di lavoro ad esempio, dove stipendio e premi non sempre seguono capacità e competenze ma dipendono da simpatia e furbizia. Ma questi ci rende davvero meno capaci e competenti? No, così come non credo che debba essere un editore o un concorso a dire quanto vale la tua scrittura, soprattutto col forte dubbio che anche editori e concorsi seguano altri metodi di valutazione (vedesi l'ultimo bestseller su come sopravvivere alle corna...) Dovresti semplicemente essere più soddisfatta tu del percorso, prima che del risultato.

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    1. È proprio per quello che dici in chiusura che ho riflettuto sulla mia scrittura e l’uso che ne voglio fare: non sono più attratta dai risultati, ho trovato (o forse dovrei dire ritrovato, ma adesso con una maggiore consapevolezza) bello e piacevole scrivere seguendo solo i miei gusti, le mie inclinazioni, giuste o sbagliate che siano. Perché gli obiettivi esterni sono troppo aleatori e io ho bisogno di credere ancora nelle mie competenze, ancorché medie.

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