Lavoravo da qualche tempo a una raccolta di racconti: non erano storie originali, le avevo già scritte anni fa. Avevano un bel concept alla base, una struttura che rendeva le vicende autonome l’una dall’altra, ancorché concatenate da un filo conduttore che le riuniva in un corpo unico. Erano state, come già il romanzo di poco anteriore, il frutto di esperienze elaborate ai tempi dell’università, trasposte in una fiction narrativa il cui risultato mi aveva gratificata (uno di questi racconti mi valse una segnalazione a un concorso, tra l’altro). Poi, a distanza di anni, provai un bel po’ d’imbarazzo, trovando inconcepibile anche solo il pensiero di avere avuto il coraggio di espormi e di avere persino vinto un premio, con uno di essi.
Sì, le idee erano ancora buone, ma occorreva dare profondità alle storie, maggiore tridimensionalità ai personaggi, correggere le banalità, gli errori tipici delle aspiranti scrittrici attratte dal sentimentalismo e dalla tecnica dilettantesca dell’uso di avverbi e aggettivi come se fossero elementi indispensabili ad abbellire una scena.