Quest'estate, ho letto l'ultimo romanzo di Michela Murgia, "Chirù", che mi è piaciuto, sebbene ricordassi di non avere granché apprezzato il suo precedente "Accabadora", vincitore del Premio Campiello 2010.
C'è un aspirante violinista che diventa allievo di un'attrice teatrale - lui ha diciotto anni, lei trentotto - e c'è un rapporto, che nasce fra i due e li rende complici, raccontato con innegabile bravura dall'autrice, non nuova alla narrazione di storie in cui le contraddizioni dell'animo umano, con tutte le sue implicazioni morali e affettive, hanno un ruolo centrale.
Non sto scrivendo una recensione del libro, anche perché non saprei bene motivare l'estraniante sensazione che esso mi ha lasciato a fine lettura. La mia intenzione, oggi, è un'altra.
Ci sono delle pagine, all'inizio, che hanno attirato la mia attenzione sulla possibilità che fra le persone esista un codice di riconoscimento, un linguaggio degli affetti basato su uno o più rituali.
In una fase ancora iniziale della conoscenza fra i due protagonisti, Chirù confida a Eleonora di avere litigato con la sua ragazza: l'ansia primitiva e l'apparente candore del giovane sono segnali di una paura dell'abbandono che merita una riflessione. Il discorso scivola sulle relazioni sentimentali, anche quelle legate a un'amicizia speciale ed è lì che entrano in gioco i riti:
- [...] Quel che conta alla fine sono i riti che condividi con queste persone.
- In che senso?
- I riti. Ce l'avrai un rituale, una cosa che fate solo tra voi.
- Non lo so. Non ci ho mai riflettuto.
Ci sono gesti, espressioni, abitudini che qualificano una relazione e la rendono unica. In fondo, questa cosa è vera: esiste come un linguaggio di appartenenza fra le persone che regola il loro rapporto, una condivisione che lega.
- Un rito è un segnale di riconoscimento reciproco. Serve a dire: tu sei mio, io sono tuo e il modo in cui lo siamo è unico al mondo.
Per Chirù era cantare ogni notte la ninna nanna alla fidanzata, al telefono, per farla dormire. Per Eleonora era persino lo scambio di battute con il giornalaio:
-... Se mi chiede se voglio quella con le banane, io capisco che intende "La Repubblica". Se rispondo che voglio quella che fa la forza, lui mi dà "l'Unione".
E quando Chirù vuole sapere a cosa serva questo rito, il dialogo spiega meglio:
- a dare senso a un mestiere noioso in cui a nessuno importa chi sei [...]
- Ho capito. È per evitare a lui (si riferisce al giornalaio n.d.r.) di sentirsi banale.
- In realtà lo faccio per il piacere di avere un complice. Nella vita ne servono molti più di quanti si creda.
Ed è vero.
Quanti complici abbiamo nella vita? Persone non solo di fiducia, su cui possiamo sempre fare affidamento, ma che ci capiscono al volo, che non cadono nella trappola dei fraintendimenti, alle quali è sufficiente dire la metà delle parole che servono, qualche volta persino una soltanto o nulla per intuire i nostri pensieri. E queste sono le relazioni speciali che si contano sulla punta delle dita, ma io parlo anche di conoscenze (non occasionali), costruite grazie alla quotidianità (come il giornalaio nell'esempio del romanzo), piccole certezze della nostra vita in movimento, come dei punti fermi che ci accompagnano ogni giorno. È a queste che penso spesso da quando mi sono trasferita a Roma: mi mancano i rituali che mi avvicinavano ai negozianti che frequentavo, la rivista messa da parte per me e che trovavo sempre nello stesso angolo dell'edicola, la libertà di accedere dietro il bancone della merceria di fiducia per cercarmi da sola il nastro del colore che volevo, obbedendo al gioviale invito del proprietario, mio coetaneo, che mi diceva sempre: "lo sai che qua puoi fare come a casa tua".
Eleonora, nel romanzo, racconta un episodio che spiega la ritualità con un'amica di Torino, una di quelle che la sopportano da più tempo: le spedisce ogni anno un mazzo di asparagi selvatici che lei non mangia, ma che unisce entrambe in una naturale associazione di idee.
E io sorrido facendo un parallelo con quello che accade a me, tutte le primavere: il mio compleanno è il 9 maggio, ma una mia cara amica mi chiama sempre il 12 per farmi gli auguri. Io lo so che devo aspettarmi la sua telefonata tre giorni dopo e lei sa di sbagliare, ma è il nostro modo per ricordarci un momento importante, quello dei miei 18 anni, festeggiati il 12 maggio di un anno che avrebbe separato le nostre strade: lei, allora, partiva per frequentare l'università qui a Roma, io sarei andata a Palermo; un modo per dirci che, nonostante la lontananza e le vite separate, l'amicizia certificata dalla condivisione dello stesso banco al liceo, è rimasta immutata nel tempo e ci unisce ancora dopo trent'anni.
Anche nella bizzarra ironia della sorte che ha voluto che lei tornasse a Caltanissetta proprio quando io ho dovuto trasferirmi a Roma.
L'importanza di un gesto che diventa un messaggio in codice, di un abitudine che assume un significato importante.
Ci avete mai pensato?L'importanza di un gesto che diventa un messaggio in codice, di un abitudine che assume un significato importante.
I riti. Ce l'avrai un rituale, una cosa che fate solo tra voi.
Eleonora, nel libro, fa questa domanda a Chirù.
Io la giro a voi.
Ci sono persone con le quali costruisci un rito in 10 minuti. Altre, con le quali vorresti farlo, che non ritualizzano in anni di tentativi. Effettivamente è un ottimo spunto per un romanzo.
RispondiEliminaIn effetti, ci sono cose che nascono spontanee e confidenze che hanno bisogno di maturare, ma senza un'empatia, forte, di base, non si va molto lontano.
EliminaSai che non me ne viene in mente nessuno di rito? Che sia forse questa una delle sue caratteristiche? E cioè il notarne la fugace esistenza, e magari l'insospettabile essenzialità, quando improvvisamente viene a mancare, travolto dai cambi di vita... :-)
RispondiEliminaSì, è possibile: la ritualità si crea in modo naturale con un'abitudine ripetuta nel tempo, la riconosci, però, soltanto quando viene meno.
EliminaSe la sua caratteristica è quella di emergere in caso di assenza, tu sei fortunato a non coltivare nessun rimpianto o nostalgia.
Nemmeno a me era piaciuto Accabadora. Se non ricordo male, l'avevo abbandonato a metà. Poi ho scoperto che anche il film "tutta la vita davanti" di Virzì è stato tratto da un romanzo della Murgia, ma ho conosciuto prima la pellicola cinematografica, quindi non l'ho letto.
RispondiEliminaI riti? Qualche mese fa, chattando su What's app con la mia migliore amica, che ha condiviso con me le dinamiche e i rituali milanesi di cui parlo nel libro, mi ha chiesto se mi ricordavo gli squillini con il cellulare che si facevano all'inizio degli anni 2000, perché ne aveva discusso con suo marito che, sebbene abbia la nostra età, non se li ricordava. Da allora abbiamo ricominciato a rifarli, anche se non siamo più due ragazzette con 5 centesimi di credito da far durare il più possibile. :-D
Altro rituale: io e la mia collega, tra le 11:30 e mezzogiorno (quindi più o meno adesso) ci chiamiamo al telefono per accordarci su dove andare a mangiare. Potremmo incontrarci di sotto e decidere al momento, però ne parliamo prima.
La mia migliore amica vive a Caltanissetta, non è quella cui faccio cenno nel post, è la più schiva di tutte, niente profili facebook, non sa cosa sia Twitter, tra noi c'è proprio tutto un linguaggio con cui riusciamo a comunicare soltanto io e lei: se dico "hai visto l'amica tua?" Lei sa esattamente a chi mi riferisco, "ddu beddu" è chi sappiamo noi, lei è la mia "amix"! i nomignoli e le espressioni che usiamo sono un codice ben preciso con cui ricordiamo il passato e ridiamo come matte. Ma ci capiamo solo noi! È bello, è un marchio: ci sentiamo raramente, ma se io cerco il conforto di una persona busso solo alla sua porta :)
EliminaAnche l'amica di cui parlo in questo post è fuori da tutto ciò che è tecnologico (non ha nemmeno la patente!), solo di recente si è presa lo smartphone con What's app. Suo marito è docente di ingegneria informatica in diverse università, e ha anche fatto dei brevetti, credo sia stata obbligata. Però abbiamo sempre trovato il modo di comunicare, anche noi abbiamo un codice tutto nostro.
EliminaCi siamo conosciute il primo giorno di università. Eravamo sedute di fianco, quando è entrato il prof di sociologia, una specie di Brad Pitt, figo da far paura. Ci siamo guardate, abbiamo guardato lui, ci siamo guardate di nuovo e siamo scoppiate a ridere. è da sedici anni che ridiamo. Ne abbiamo vissute di ogni, pur essendo due piuttosto casalinghe.
Ricordo che una volta le ho chiesto di darmi l'idea per il romanzo ricordandomi le cose che facevano a Milano tra il 2000 e il 2010, e lei ha tirato fuori una serie di aneddoti tale da costringermi a chiudermi in bagno (in quel momento ero in ufficio) perché avevo le lacrime dal ridere, mi stavo sentendo male. Noi abbiamo una serie di frasi che nessuno può capire, perché rimandano a episodi vissuti. Per esempio, basta dire "vuoi farti un book?" o "è arrivato Emanuele Filiberto!" che scoppiamo a ridere come due sceme, e la gente ci guarda male.
Tra l'altro, lei si chiama Paola, e all'inizio degli anni 2000 i nostri nomi venivano abbinati di default. Ogni volta che qualcuno tentava l'approccio, faceva riferimento alle due sorelle (che a noi stavano anche un po' sulle scatole) dicendo: "però siete tutte e due more"... Probabilmente, credevano che le loro battute fossero originali! :-D
Il complimento più bello, invece, che noi potessimo ricevere era il sembrare sorelle agli occhi di tutti. Dicono che la simbiosi porta anche ad affinare somiglianze addirittura fisiche.
EliminaSì, è una cosa che dice anche il buddhismo sulle anime unite da legame karmico. :)
EliminaCi sono dei riti che si creano spontaneamente e che poi diventano un rituale importantissimo. Mi viene in mente il caffè con le colleghe al mattino, è un momento sociale in cui condividiamo per dieci minuti le nostre vite. Con una mia amica ci sentiamo almeno una volta alla settimana per telefono, e se non riusciamo a sentirci ci mandiamo un messaggio, è un amicizia che dura da trent'anni, anche grazie a questa costanza. Con il mio compagno la telefonata giornaliera a metà giornata per salutarci...
RispondiEliminaNon parlarmi del caffè con le mie amiche, quando torno a Caltanissetta, è la prima cosa che organizzo!
EliminaTi svelo un segreto: la scusa del caffè è l'amo che lancio per verificare se posso approfondire una conoscenza. La chiacchiera che si crea con la tazzina fumante davanti getta o meno le basi per la nascita di una ritualità! ;)
Il caffè è un rito fantastico dove noi italiani probabilmente eccelliamo come rito e come gusto del caffè in sè :)
EliminaAspetta, ma il bello viene adesso: io... non... bevo.... caffè!
EliminaMa per me conta il rituale, ahahah!
Con il tuo post ripenso con nostalgia a vecchie sintonie nate con pochi amici/che, con cui bastava un "hei" pronunciato in un certo modo per capire se qualcosa non andava o a volte, la direzione di uno sguardo per sapere dove stavano volando i pensieri. Linguaggi invisibili fatti di parole, ma anche di espressioni. Io e una mia carissima amica abbiamo inventato un codice di scrittura per scambiarci messaggi sui foglietti durante le ore di lezione. Il rito del caffè è un must per me, come le chiacchiere a mezzanotte con un mio amico che lavora quasi sempre di notte. La telefonata a mio figlio appena scendo dal treno, perché quando esco di casa lui dorme ancora. Da quando mi sono trasferita, molti rapporti si sono affievoliti. Non persi, ma non sono più quotidianità. Dove vivo, benché non sia una grande città, non sono riuscita a instaurare legami speciali. Alle volte, sento tanto la mancanza di quelle radici che ti legano a un posto e alle persone che ci abitano. Quel conoscere una storia di qualcuno accennando solo al nome...
RispondiEliminaCon le chiacchiere a mezzanotte con un amico io rischierei la separazione! :)
EliminaSe cerco mio figlio al cell, faccio prima a ricevere una grazia da Madre Teresa di Calcutta! O.o
Però, quanta verità c'è in quello che dici a proposito dei legami speciali e la mancanza delle radici! Con la conoscenza delle persone partendo dal nome sfondi una porta aperta: giù, a Caltanissetta, si faceva l'intero albero genealogico del fidanzato/a di turno, qui navighi nell'oceano dell'anonimato più totale.
ehehehehehhe capisco tuo marito, Marina, ma io non rischio niente, a parte qualche ora di sonno. A proposito di questo, quante volte ci siamo addormentati al telefono! Mio figlio è ancora nell'età in cui la mamma è la mamma (6 anni, da poco) e quindi, mi godo ancora le coccole, i bacini e i ti voglio bene urlati al telefono. Qualche amica vicina mi manca, ma poi, quando riesco a fermarmi a Napoli per più giorni recupero il tempo perduto :-)
EliminaNe ho uno che ancora mi riempie di gesti affettuosi e, guarda caso, è mio figlio più piccolo, 13 anni. Il "grande" di 15, già, si sente un uomo fatto. Ma solo io so come prenderlo, perché è vero: la mamma è la mamma. A qualunque età! :)
EliminaOggi siamo entrambe a raccontare delle nostre letture estive. ;)
RispondiEliminaNon conosco l’autrice ma la questione che poni riguardo ai riti è affascinante. Io e le mie amiche ci vediamo a cena una volta a settimana – impegni permettendo – da quando abbiamo dieci anni. Prima nel cortile del quartiere, poi a casa di qualcuno. Il gruppo si è ampliato, ristretto, perso e ritrovato, ma quella cena la facciamo ancora. :)
È il vostro modo per dirvi ci siamo ancora tutte?
EliminaÈ bello! Non perderla l'abitudine! :)
L'idea dei rituali da condividere è molto bella, fortunato chi ne ha :D Non ne ho, insomma! A me il cambiamento ha portato l'opposto, rispetto a quanto detto anche nei commenti, forse i legami non erano cementati, lo pensavo io.
RispondiEliminaNon so perché ma ogni volta che mi si presenta l'occasione per leggere la Murgia, finisco per lasciar perdere :P Però vorrei farmene un'idea...
Buona serata Marina ^_^
Io concedo spesso, non sempre, una seconda possibilità agli autori che non mi hanno detto molto con i loro libri. Accabadora mi aveva lasciato il ghiaccio dentro, ci ho riprovato e, devo dire, la storia di Chirù non mi è dispiaciuta. Non so, però, se vorrò leggere ancora qualcosa della Murgia: lei è bravissima, scrive veramente bene, ma sono le storie in sé che peccano in qualcosa è io non saprei dirti bene in cosa!
EliminaPer quanto riguarda i riti, non è necessario che si instaurino fra persone che si conoscono da sempre. Se vuoi te ne offro io qualcuno: un'attestazione di stima che passa attraverso la parola d'ordine "Murakami", se vogliamo fare le serie o "Myrtilla's Angels" se, insieme, vogliamo farci quattro risate! ;)
:3 Cara Marina, posso soltanto dirti grazie e ti abbraccio! <3
EliminaIo sono un sociopatico quindi mi manca l'elemento base per condividere un rito, ovvero: la confidenza, la comunione con l'altro.
RispondiEliminaPerò c'è una gigantesca eccezione in questa regola: mi figlia. Con lei si può dire che ogni singolo scambio verbale o gesto racchiuda anche un rituale che solo noi due siamo in grado di capire :-)
Il rapporto con i figli è speciale ed esula da qualunque difficoltà si possa incontrare nei rapporti con gli altri. Ma tu in quelli virtuali tutto sembri fuorché sociopatico!
EliminaRiti io e l'Orso tanti, io e mia sorella anche.
RispondiEliminaMagari ci faccio un post, grazie.
Letto niente della Murgia.
Non so se mi sento di suggerirti questa lettura. Forse sì, è un libro che andrebbe letto, la Murgia segue strade molto efficaci per dire le cose, anche se in Accabadora era proprio quello che diceva a non piacermi.
EliminaDai, un po' di riti raccontali in un tuo post, io sono curiosa :)
Io e mio marito abbiamo un linguaggio tutto nostro, temo. Se uno dei due per sbaglio storpia una parola (e a me capita spesso), la parola storpiata viene immediatamente adottata ed entra a far parte del nostro lessico. Così, ad esempio, una zanzara può "pungiare" (in effetti lei punge e mangia). I riti, in effetti, costruiscono l'intimità tra persone e ne cementano i legami.
RispondiEliminaDevo dire però che i frammenti di romanzo che hai citato non mi hanno entusiasmato, e sì che Chirù mi aveva incuriosito (anche per la campagna marketing simpatica) e avevo una mezza idea di leggerlo, ma questi dialoghi non mi hanno fatto scattare la scintilla. Magari ne parlerai ancora e mi convincerai?
In realtà, ho estratto solo i brani che mi hanno ispirato il post, perché a un tratto una cosa tanto ovvia come i gesti d'intesa naturali con le persone con cui abbiamo confidenza, è diventata oggetto di attenzione e trovarla definita nel modo giusto mi è sembrato bello.
EliminaNon so, però, se provare a convincerti a leggere "Chirù", a me è piaciuto perché spiega bene tante cose che penso e magari non saprei rappresentare meglio, ma un po' lo stile della Murgia è emerso anche qui, proprio quello che mi aveva lasciato perplessa in Accanadora. Sono i contenuti a non convincermi del tutto: qui c'è una storia in cui la protagonista mette a nudo la propria vita dietro il pretesto di fare da tutor a un allievo violinista, ma per me rimane solo questo.
Riti? Credo siano talmente tanti gli usi e consuetudini con le persone, che non me ne accorgo, nemmeno li definirei riti.
RispondiEliminaSe in ufficio dico forte "manah manah", gli altri subito mi rispondono con "tuttudududu" e sappiamo che sarà indice di una giornata pesante per tutti.
Quando andiamo a pranzo dall'ufficio, prenotato dalla mia mail, sempre nello stesso risto-bar, ci assegnano il tavolo con "i Businari qui" (nemmeno il nome dell'azienda!)
Per la mia ex-capo, il mio primo mentore informatico, io sono e resto "la BiBi", dalle iniziali. Per la mia amica romana, dello stesso corso di webdesign, io sono "B@", pronunciato "bah!" E ancora dopo 10 anni, tra di noi ci scriviamo "Amikka!" (rigorosamente con 2 kappa, e solo a lei glielo concedo, in genere le abbreviazioni/storpiature mi urtano).
Per non parlare di tutti i riti della moto. Avete notato come si salutano i motociclisti tra di loro? (quelli veri, i moto-turisti. NOO, gli scooteristi sono esclusi!!) Una V con indice e medio, per Vittoria (che sono ancora in sella :P). Che diventa solo l'indice se sei impegnato al manubrio, senza zavorrina (= la passeggera), o il piede all'infuori se sei in discesa/piega. Senza contare poi che per stare sulla stessa moto occorre assolutamente aver prima definito i riti di comunicazione (se non hai l'interfono bluetooth tra i caschi). ;)
Facessimo una raccolta scritta di tutti i riti e gli aneddoti che ci legano alle persone, verrebbe fuori un bel soggetto per una performance cabarettistica! :D
EliminaSai, Marina, che a me “Accabadora” era molto piaciuto? Lo avevo anche recensito positivamente su Qlibri. Poi avevo ripescato di suo “Il mondo deve sapere”, e la Murgia l’avevo proprio adorata: in queste due opere l’ho sentita vicina, parecchio affine per svariati aspetti.
RispondiEliminaMi sa dunque che, a prescindere da questo bellissimo post che è anche un grosso spunto riflessivo e dal giudizio sul libro, prima o poi mi faccio pure Chirù; che non ci sia due senza tre.
I riti. Ah, i riti. Io sono una che si appiccica ai riti come la cozza allo scoglio. Certe volte mi faccio paura da sola. Creo riti con tutti: non solo con l’uomo che ho sposato che dovrebbe rappresentare l’apice del rito e della complicità o con i miei figli, ma con i colleghi, il fruttivendolo, il giornalaio, la vicina di casa, il mendicante stanziato, i familiari, gli amici… E ovunque mi trovi; dopo un tot, zac! scatta il rito.
Ad esempio, il primo giorno di lavoro in società, una collega, diventata successivamente una cara amica, divise con me il suo tramezzino al tonno: da allora, e sono passati nove anni, ogni volta che una delle due attraversa un momento difficile o un periodo travagliato, si va a comprare un tramezzino al tonno e lo si divide.
Il fruttivendolo è un aspirante – pessimo - stornellatore; le prime volte che andavo, stava li a pescare e ripescare le rime mentre vendeva: è accaduto che gli ho suggerito una parola, e gù stralci di stornelli almeno una volta a settimana quando vado per la spesa grossa.
Alla mendicante davanti all’ingresso della stazione portavo il cornetto e la sigaretta ogni mattina che ero in anticipo – poche in verità, ma due, tre volte al mese accade la magia - , e lei mi raccontava pezzetti di vita mentre ci facevamo fuori colazione e nicotina; tanto che quando non l’ho più vista, mi è come mancata la terra sotto i piedi: nessuno mi avrebbe più rimproverato o sorriso in base all’ora.
Insomma… potrei proseguire con un elenco assurdo: che poi non so neppure se si tratta di “riti” veri e propri. Ma senza credo non riuscirei proprio a vivere. Non mi so immaginare, non ce la fo…
Di contro c’è che non tutti desiderano instaurare riti di sorta: non possiamo essere a tutti affini, l’empatia e la complicità devono essere spontanee, una roba istintiva e naturale.
Ma è bello fermarsi a riflettere su questo aspetto della vita.
Sì, lo sono, Regina, i tuoi sono dei meravigliosi riti di cui, per tua stessa ammissione, non riusciresti più a fare a meno. Credo che sia proprio questa la natura di un rito, per come intesa dall'autrice: un gesto, una consuetudine che crea unione, genera complicità, stringe rapporti fra le persone. Io trovo sia molto bello e, forse, a pensarci, è quasi una conseguenza spontanea di certi rapporti: la confidenza e la continuità sono il terreno su cui fare fiorire qualche bel rituale affettivo.
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