martedì 19 settembre 2023

Il memoir che (non mi) piace


Per tornare a scrivere un romanzo dovrei rispolverare la fantasia un po’ arrugginita, immaginare una storia che abbia tutti gli elementi per attirare l’attenzione, con una trama solida e una buona architettura. Altrimenti dovrei raccontare qualcosa di me, attingendo al mio passato: rievocare, più che inventare. 

Quando l’ispirazione non aiuta, può essere una soluzione ripiegare sulla vita propria? Rispolverare vecchi ricordi, rintracciare la memoria dei fatti più rappresentativi, per poi dedicarsi a una narrazione di stampo autobiografico? Non c’è il rischio che per non perdere l’aderenza alla realtà si tessa un tappeto di dettagli che, alla fine, risultando poco funzionali o per niente interessanti, siano solo un’espressione narcisistica di sé?

Sono venuta a conoscenza dell’esatto significato del termine “memoir” da poco, da quando l’inflazionato numero di scritture appartenenti a questo genere letterario ha suscitato la mia curiosità. Avete notato come esso vada di moda, oggi, assieme all’autofiction (di cui ho già parlato in un precedente articolo)? Raccontarsi, quando si ha qualcosa di intenso da rendere noto, di significativo, di emotivamente coinvolgente, è liberatorio, risolve anche molti problemi legati al cosa scrivere, ma è sempre così vincente? Mi chiedo: al di là del suono evocativo della parola francese, perché dovrebbe essere piacevole leggere una storia che appartiene alla sfera privata di qualcuno? E la risposta la trovo documentandomi. 

Capisco cos’è un memoir innanzitutto nella sfumatura che lo differenzia dall’autobiografia (con cui spesso è confuso): nell’autobiografia c’è una componente realistica dalla quale non ci si discosta, un’aderenza oggettiva agli eventi e al loro tempo, che mancano nel memoir, dove si parte sì da un’esperienza personale, ma non è necessario ricostruire i fatti secondo un ordine cronologico; qui il ricordo funge da pretesto per dare valore agli accadimenti vissuti, per attualizzare una sensazione. Il memoir sollecita ed esalta la componente emotiva di una verità raccontata e mira a trasmetterla, dunque raccontare se stessi può avere un risvolto positivo, può servire a veicolare messaggi importanti, suscitare riflessioni che valga la pena condividere con i lettori. Chi vi si cimenta, insomma, non fa un semplice lavoro di memoria, volto a riportare e mettere in ordine fatti, bensì opera una ricostruzione che richiede un impianto letterario ben strutturato, con tanto di trama dentro cui sviluppare l’arco narrativo del personaggio “se stesso”. 


Affrontando questo discorso, mi vengono in mente i “pregiudizi sulla scrittura” di cui parlava Giuseppe Pontiggia in Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere” (rubrica in onda dagli studi di Radio Rai nel 1994 e riproposta all’interno della piattaforma RaiPlay Sound)*: uno è l’idea per cui scrivere significa trascrivere. Invece scrivere è inventare (etimologicamente derivante dal verbo latino invenire, che vuol dire “trovare”): si scrive per scoprire ciò che non si conosce, la pagina ha una sua efficacia letteraria quando rivela significati nascosti di cui l’autore/trice sono all’oscuro; scrivere non è riportare sul foglio quello che si sa già. 

Un altro è il pregiudizio realistico, per cui scrivere attingendo dalla realtà offre più credibilità, una maggiore tenuta della scena, come se - diceva lo scrittore - per raggiungere l’effetto della noia sia necessario annoiare il lettore. Pontiggia si riferiva anche al cosiddetto romanzo della memoria, per cui scrivere significa ricordare. Va bene se c’è comunque dinamismo, se si rivolge lo sguardo indietro nel tempo ma solo allo scopo di dare vita a un organismo nuovo, che viva di luce propria, non fatto solo di ricordi trasferiti su carta; il procedimento prettamente mnemonico mette in crisi il lettore, perché rallenta il suo interesse, crea distacco, interrompe l’attenzione.

Allora ho cercato di reinterpretare il genere letterario “memoir” alla luce dei pregiudizi così spiegati e l’unica conclusione cui sono giunta è che se racconti una parentesi di vita che ti appartiene non trovi nulla di nuovo nella pagina, la tua è una testimonianza, ma se ricalchi la realtà trovando il modo di non annoiare, forse la strada è percorribile. Sono riusciti nel loro intento Andrea Pomella con “L’uomo che trema” e Pierluigi Cappello con “Questa libertà”, romanzi che ho letto perché proposti per la condivisione all’interno di un gruppo di lettura, qualche anno fa. Pagine di grande autenticità quelle di Pomella e di pura poesia, quelle di Cappello, dove le vicende personali dei protagonisti/autori hanno certamente indotto a fare delle riflessioni profonde sul senso della vita, sulle reazioni umane di fronte all’accadimento di un dramma, eppure, in entrambi i casi, io ho maturato la sensazione di trovarmi come fuori posto dentro una porzione rilevante delle loro esistenze e di sentirmi a disagio nell'introdurmi, sebbene con il loro “permesso”, in un’area così personale e intima. Io leggo per evadere, leggo per immagazzinare informazioni, leggo per immaginare mondi diversi dal mio, per viaggiare con la fantasia, per soffrire anche, ma solo quando m’immedesimo in situazioni che possono essere possibili, non quando esse sono effettivamente corrispondenti alla realtà. Per questo, in genere, mi tengo lontana dai libri che parlano di malattie, disgrazie, disabilità, narrate in prima persona da chi le vive o le ha vissute (direttamente o indirettamente) e per questo non ho nessuno slancio verso la lettura di “Come d’aria” di Ada D’Adamo, vincitrice del Premio Strega di quest’anno. L’idea di addentrarmi nella struggente vicenda del rapporto di una mamma con la figlia affetta da una grave patologia congenita mi tiene lontana da questo romanzo sicuramente splendido e commovente, con l’aggravante emotiva che l’autrice, purtroppo, non c’è più (e mi dispiace tanto che non possa essersi goduta la gioia della premiazione).


Tornando, dunque, alla domanda iniziale: la pigrizia mentale può trovare ristoro nel genere autobiografico? Rispondo: nel mio caso no. È una formula narrativa che non può appartenermi; non sarei in grado di farmi protagonista di un romanzo, lavorando sui miei drammi esteriori o interiori per renderli d’interesse pubblico. Scarto il memoir che tanto piace, frequentandolo solo in qualche rubrica proposta in questo blog, dove mi racconto, tra autofiction e ripasso di reali vecchie esperienze, solo per dare assaggi di vita che a nessuno interesserebbe approfondire. 

E le autobiografie, per citarle a completamento, le lascio volentieri al ghost-writing dei personaggi noti.



*Un’altra riflessione legata all’ascolto di quegli incontri radiofonici la trovate in questo post.










22 commenti:

  1. Cara amica, io ho l'impressione che tu stia attraversando un periodo caratterizzato da un senso di colpa per non aver scritto un nuovo romanzo.
    Devi stare tranquilla ed aspettare l'arrivo di una qualsiasi ispirazione.

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    1. Qualche anno fa ti avrei dato ragione, oggi meno, perché non ho sensi di colpa veri e propri, è più una ricerca, la mia, volta al negativo: cosa NON mi piacerebbe scrivere, se volessi rituffarmi nell'esperienza romanzo. Adesso sono nell'ordine delle idee che aspettare l' ispirazione con ansia non serva a nulla: tanto, quando arriva, sa imporsi 😌

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  2. Da un lato può essere più semplice, come per lo studente che, dovendo fare un tema, sceglie "l'argomento" che conosce meglio. D'altro canto però, prima ancora dell'argomento viene la scrittura tout court: se lo studente non si sente ispirato, serve a poco che la traccia del tema sia proprio sull'argomento che conosce meglio.

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    1. Per dirla alla Pontiggia: trascrivere, non inventare. Lo si fa a scuola e certo anche lì l'ispirazione gioca un ruolo importante, anche se parlare di qualcosa che già si conosce non comporta sforzi di fantasia e questo è in sé un vantaggio. Lo sai che io, sin dalle elementari, a scuola ho sempre scelto i compiti d'italiano a tema libero? mi trovavo meglio con ciò che non sapevo piuttosto che con le nozioni acquisite studiando. Difetto di fabbrica. :P

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  3. Un romanzo sulle memorie non mi calza neanche un po'. Innanzitutto per la memoria fallacissima, in secondo luogo perché mi sento sempre più un velocista letterario. Adoro il racconto breve e mi calo nei suoi ritmi e nelle dinamiche che lo caratterizzano. E sto riversando questa tendenza anche nelle letture, ad esclusione dei miei autori feticci che possono scrivere anche milleduecento pagine.. ;)

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    1. In genere sposo anch'io la brevità, forse molto più nelle letture, ma scommetto che il mio feticcio supera i tuoi: Proust è l'unica lunghezza che non mi sgomenta :)

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  4. Per come la vedo io un libro dovrebbe servire ad imparare qualcosa e/o ad evadere in modo piacevole dalla realtà. Nella prima categoria ci sono i saggi che ampliano le conoscenze di specifici argomenti e le autobiografie di persone che hanno fatto la differenza e che possono essere un'ispirazione. Nella seconda ci sono le opere di fantasia che servono principalmente ad intrattenere ma che, quando sono fatte davvero bene, possono aprire la strada a riflessioni e stimolare l'empatia.
    Tutto il resto, sinceramente, mi sembrano solo categorizzazioni di poca utilità. ;-)
    Saluti.

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    1. Oggi le autobiografie che vanno sono di persone famose ma che fanno poca differenza 😅. Comunque mi trovo d'accordo: troppo sottogeneri. Non servono.

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  5. Anche se ci può essere una forma più consona di un'altra a trattare un determinato argomento, prima di questa, viene sempre la sostanza. Un argomento ti deve prima di tutto ispirare, deve suscitare in te uno scatto interiore. Altrimenti, scegliere a priori un genere e poi riempirlo di contenuti rischia di essere una forzatura, come se si mettesse un quadro in una cornice che gli sta stretta.
    Buona serata Marina e grazie!

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    1. Giusta considerazione. Puoi inventarti di tutto o raccontare la tua vita per intero, ma se lo fai solo perché "t' imponi" un genere di riferimento, stai pur certa che quella forzatura emerge e non lo so se vale le pena tentare una strada che manca di sincerità

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  6. Anch'io "leggo per evadere, leggo per immagazzinare informazioni, leggo per immaginare mondi diversi dal mio, per viaggiare con la fantasia, per soffrire anche, ma solo quando m’immedesimo in situazioni che possono essere possibili", ma perché escludere la possibilità di farlo con il memoir? Ecco, secondo me un certo tipo di narrazione non esclude l'altro. Sono solo molto diversi, neppure tanto complementari. Scansando esempi non all'altezza del nostro discorso, come può essere Spare del principe Harry (che nemmeno ha scritto oltretutto), ci sono casi eccellenti di memoir che sono diventati letteratura: Se questo è un uomo di Levi, tutto il meglio di Ernaux (che per i suoi memoir ha ricevuto il Nobel per la letteratura), Il male oscuro di Giuseppe Berto (che mi attende sullo scaffale da un pezzo) e molti altri. Insomma, a ben vedere non è nemmeno una novità, forse un ritorno.
    Quando leggo un libro come quello della D'Adamo non mi pongo come dinanzi a un romanzo di McCarthy o di Murgia o di Ardone. Dalla prima all'ultima pagina so di trovarmi dentro un altro "luogo", quello della memoria che diventa narrazione di sé perché è una vita esemplare, degna di essere raccontata. Un po' quello che fa la stessa Mazzucco con Vita, che dopotutto è la storia romanzata di suo nonno emigrante. Vale la regola di rifarsi a ciò che si conosce, puntare al realismo, ma perché non leggere per principio questi libri?
    Io per esempio prima o poi leggerò anche Dove non mi hai portata, di Calandrone, di cui ho sentito grandi elogi. Invece Niente di vero di Veronica Raimo non mi ha conquistata.

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    1. La risposta è semplice: perché non ne sono particolarmente attratta. Infatti, non discuto sul valore letterario del memoir in sé, so che ci sono opere di grande pregio scritte da autori importanti (per esempio quelli che tu hai citato), ma spesso sono le tematiche a tenermi lontana dalla lettura: anche Dave Eggers ha scritto un memoir, il suo "opera struggente di un formidabile genio" mi è piaciuto, perché era a modo suo spiritoso, mentre Vita, appunto, è romanzato e già questa componente di fantasia me lo ha reso più allettante (anche se, non ci crederai, l'ho cominciato quest'estate e non l'ho ancora finito: non mi ha presa del tutto!). Vero è che il pregiudizio è forte, ma poi mi dico: un gusto verso un certo tipo di lettura può sempre essere scambiato per pregiudizio?

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  7. Puoi mettere tanto di te in un testo senza attingere necessariamente a cose realmente accadute, poi come ha già detto qualcuno il resto sono solo etichette, che forse a qualcuno servono... di certo non allo scrittore. Se forse hai letto i miei ultimi post sto parlando della fine della stesura del mio romanzo. Non ho idea di che genere sia, perché ci ho messo tante cose, magari è qualcosa che sarà deciso a posteriori ma ecco, non è qualcosa che devi per forza decidere prima.
    Aspettare l'ispirazione? No, non funziona: devi andare a cercarla, e quando io la cerco l'unico modo che conosco è scrivere un racconto, magari brutto che non farò leggere a nessuno ma qualche idea di sicuro uscirà!

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    1. Che chi scrive trasferisca qualcosa di sé nella sua opera è indubbio, ma qui si parla di esperienze reali trasferite su carta, che diventano l'oggetto unico della narrazione. Esiste anche l'autofiction, allora, ma anche qui siamo in un campo leggermente diverso: l'autore o l'autrice parano di se stessi, ma mescolano ai fatti reali elementi di fantasia. Io credo che per scrivere un memoir devi avere in mente prima ciò che vuoi scrivere, lo dico meglio: tu scrivi di te perché sai che vuoi scrivere un memoir, cioè hai una consapevolezza a priori.
      Dunque sei della filosofia secondo cui l'ispirazione va inseguita? Non so, io la vivo come un'esperienza spontanea, però, in effetti, quando non arriva, provare a cercarla non sarebbe male!

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  8. Credo che scrivere attingendo alla propria vita possa essere ben più complesso che inventare una storia inventata, tuttavia non disdegno nessuna storia purché sia scritta bene e trasmetta delle emozioni. Ci sono storie vere che ho letto che mi hanno davvero dato quel quid in più, La memoria rende liberi di Liliana Segre per esempio, ma anche le storie di Gomorra di Saviano. Si tratta di storie vere che fanno capire meglio la realtà. Del resto anch’io leggo per evadere dalla realtà, quindi non sempre ho voglia di leggere storie così forti, come può essere l’ultimo premio strega, però chi vive una situazione difficile analoga forse da quella lettura può trarre forza. Per esempio il romanzo di Daria Bignardi “Non vi lascerò orfani” è un memoir che lei scrisse dopo la morte della madre. Quando uscì il libro non lo comprai, ma quando morì mio padre, perdendo del tutto lo stato di figlia, trovai in quel romanzo incredibile conforto.
    Tuttavia anche quando non si scrive un memoir chi scrive attinge sempre dalla propria vita, perché ci sono i propri pensieri e le proprie esperienze che finiscono comunque tra pagine scritte suo malgrado…

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    1. Ecco, forse leggere il memoir di qualcuno perché si condivide una stessa esperienza avrebbe un senso per me, come è stato per te il conforto tratto dalla lettura della Bignardi, ma in genere non sono attratta dalle vicende personali altrui, soprattutto se parlano di lutti o malattie, come dicevo. Svelarsi in un libro è un conto, mascherare qualcosa di sé un altro. In questo caso, mi piace l'idea che qualcosa dei mie pensieri o della mia vita passi nei miei scritti, ma non in modo diretto.

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    2. Va anche considerato che non tutti vivono esistenze avventurose in senso lato, quindi ci dev'essere qualcosa di più della motivazione dello scrittore, ci dev'essere anche una ragione profonda e qualcosa di importante di cui parlare... altrimenti sarebbe qualcosa di più simile a un diario, no?

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    3. Infatti, per come l'ho capita, il memoir deve contenere un messaggio forte, indurre a fare delle riflessioni profonde, la storia autobiografica diventa un pretesto per dire molto di più.

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  9. La mia risposta è il consiglio di Čechov a un aspirante scrittore: “Senza trama e senza finale”. È ciò che consigliava di fare quando manca l’ispirazione: scrivere di qualsiasi cosa, in qualsiasi modo. Per questo penso che scrivere di sé possa servire.
    Ho sperimentato che anche quando si inventa, si intrufolano personaggi ed eventi conosciuti realmente, naturalmente idealizzati, narrativizzati, ma aiutano a costruire la storia. Secondo me non possiamo scrivere di ciò che non sappiamo. Anche se proviamo a inventare, il lavoro sarà sempre un misto di invenzione e conoscenza. Ad esempio, anche se un personaggio è inventato, lo faremo amare come pensiamo sia l’amore, come abbiamo sperimentato nella vita l’amore, ecc.
    Qui (https://www.youtube.com/watch?v=xFK5Ih3CPFc) c’è un altro avvocato della scrittura di sé come esercizio che aiuta a migliorare le capacità narrative. E magari a far arrivare l’ispirazione.

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    1. Io mi trovo molto in sintonia con la scrittura di fantasia che attinge alla realtà, perché certamente si scrive di più e meglio di ciò che si conosce, ma uno scritto tutto autobiografico è diverso: lì si parte da una storia inventata che arricchisci con elementi reali, qui parti dalla realtà è oltre non vai. Ecco, questo non è nelle mie corde. Di solito traggo ispirazione da un episodio o una frase o qualcosa che mi colpisce, ma poi costruisco sulla fantasia. Mi aiuto spesso dandomi un tema, tipo parola d'ordine. :)
      (Ho visto il video e mi sono fatta due risate, ma non credo che sia il link corretto :D)

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  10. "il libro essenziale, il solo libro vero, un grande scrittore non deve, nel senso corrente, inventarlo, poiché esiste già in ciascuno di noi, ma tradurlo. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore"...Proust in qualche modo ti ringrazierebbe,per come traduci i suoi scritti,grazie Marina:)

    L.

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    1. Grazie a te, i tuoi interventi sono sempre graditi! :)

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