Uno dei limiti più evidenti, ma meno riconosciuti, quando scriviamo, è l’incapacità di rinunciare a ciò che abbiamo scritto, che va dal rifiuto totale di intervenire sul testo, nella convinzione di avere fatto tutto al meglio delle nostre possibilità, alla difficoltà di intercettare quelle parti eliminabili, nonostante ci sia voluto del tempo e non poco impegno per crearle. Magari abbiamo buttato l’anima, in quelle pagine, e immaginare di ridurle o di “aggiustarle” smonterebbe il nostro autocompiacimento, poco importa se per difenderlo abdichiamo alla buona resa della narrazione.
Decido di partecipare a un concorso letterario con un vecchio racconto. Il regolamento prevede, al solito, un tot di caratteri (spazi inclusi) corrispondenti a circa cinque pagine, io ne ho scritte nove. Ho dovuto intervenire drasticamente e modificare l’architettura della storia per lasciare inalterato il mio intento originario.
A prescindere dalla riuscita o meno dell’operazione, non immaginate quanti rimproveri mi sia rivolta nel rileggere le pagine del racconto, in che modo lo abbia rimaneggiato, destrutturato e rimesso in piedi (quello definitivo è la sesta versione) e, signori, era un racconto di sole nove pagine! Appena nove pagine di scrittura (che ritenevo fluide), contenevano in realtà una caterva di errori. L’ho stabilito io che lo fossero, sulla base di ciò che ho osservato in anni di proficue letture e appreso con l’esperienza maturata anche (forse soprattutto) grazie all’esistenza di questo blog.
Dal lavoro di revisione portato a termine ho desunto tre regolette che, a mio parere, dovrebbero essere sottese a una buona scrittura:
1) Gli aggettivi qualificano solo quando è necessario. Perché, invece, abbiamo spesso la tendenza ad associare a ogni parola un attributo?
“... le sue mani avvizzite seguivano con il rasoio la linea smunta del mento, i pochi capelli gli incorniciavano il viso, lasciandogli scoperta una vistosa chierica in testa.”
Sto raccontando la quotidianità di un anziano signore e in sole due righe ho scritto: “mani avvizzite”, “linea smunta”, “pochi capelli”, “vistosa chierica”.
Sappiamo che è vecchio, non è necessario specificare che le sue mani sono avvizzite e non ho bisogno di dire che ha pochi capelli se è una chierica quella che gli si scopre in testa. Che importa se è vistosa?
Via tutto. Ne mantengo solo uno, di attributo, e la frase diventa:
“la sua mano seguiva con il rasoio la linea smunta del mento, i capelli gli lasciavano scoperta una chierica in testa.”
Credo suoni meglio.
2) Affezionarsi a talune espressioni, elaborare frasi tutte simili fra loro è rischioso: sono efficaci solo la prima volta che vengono usate, poi, ripetute, perdono qualunque forza evocativa: nel racconto parlo di un musicista ed è tutto un profluvio di note che attraversano le pareti, fluttuano nell’aria, di melodie che s’infiltrano ovunque, penetrano negli spazi vuoti, si diffondono come un’essenza profumata...
Ripulita anche da tutte queste ridondanze, la narrazione sembra fluire meglio.
3) Usare la semplicità non significa depotenziare un concetto, anzi, certe volte, snellire un periodo garantisce quell’immediatezza che nella lettura, poi, si apprezza maggiormente.
“Il camion della ditta Traslochi arrivò subito dopo con il suo carico: invase la strada, attirò l’attenzione degli abitanti del quartiere, genero curiosità, causò disagi.”
diventa:
“Il camion della ditta traslochi si fermò nel vicolo, attirando l'attenzione del quartiere”.
È pur vero che sono stata costretta a tagliare, laddove era possibile farlo senza compromettere la sostanza della storia, “asciugare” è diventata la mia parola d’ordine. E i miei beta-readers si sono dati un gran da fare, con risultati sorprendenti.
Dovrò attendere ancora un po’ per conoscere il risultato della competizione, vedremo che accadrà, intanto ho cominciato (e a fatica portato a termine) una lettura condivisa con il mio collaudato trio (io, Barbara Businaro e Darius Tred) al quale, per l’occasione, si è aggiunta Luz e non ne parlerò qui perché non ne ho voglia (tanto so che Barbara ne farà una disquisizione molto accurata nel suo blog). Mi basti dire che questo “Ombre di spada e di vento” di Poppi Kuroki è un romance scarso ambientato nel Giappone dei Samurai, dove editing e traduzione sembrano venuti fuori da una prova (fallita) d’improvvisazione. Altroché regole di bella scrittura (tutto sommato banali)!
Leggo in rete che il libro è ricco di colpi di scena, azione e grande passione e dico boh, scherziamo? l’unica ricchezza che riconosco è nell’uso di aggettivi, che sovrabbondano, molti rigorosamente a coppia: calde e veloci, piccola e delicata, silenzioso e implacabile, regale ed elegante, sciocco e ingenuo, cortesi e premurosi, ovattato e serio, alto e fiero e se li elenco tutti ci perdiamo di casa.
Un buon editor non segnerebbe in rosso l’espressione “magre gambette”? non dovrebbe accorgersi che la metafora dello stomaco che fa una capriola è ripetuta due volte nella stessa identica formulazione o che il più classico dei luoghi comuni, il cuore stretto in una morsa, magari, poteva essere evitato? Roba basilare, credo! Ma dov’è l’editing impeccabile di chi lavora per una casa editrice del gruppo Mondadori? E se l’errore è di chi si è occupato della traduzione, il problema è ancora più serio.
Non mi soffermerò sullo strafalcione importante comparso già nei primi capitoli, lampante come il semaforo rosso in una strada buia, roba da togliere alla editor la legittimazione a operare sul testo e all’agente che lo ha preso in carico ogni credibilità. Sorvolando sull’ipotesi di plagio (la storia, a quanto pare, mostra un’evidente somiglianza con la saga di Diana Gabaldon, “Outlander”), manco l’originalità può salvare questa opera!
Ora mi chiedo (ebbene sì, mi succede ancora di farmi delle domande a riguardo): io faccio tutto un lavoro su me stessa, di miglioramento, di precisione e se anche non ci riesco, perlomeno, nelle intenzioni, c’è il desiderio di assecondare i paradigmi della buona scrittura, ma com’è possibile trovare in un libro, pubblicato con il favore di una casa editrice di una certa levatura, tutto quel panorama di inesattezze, errori, leggerezze, sfuggite al lavoro di uno staff che dovrebbe garantire una competenza solida?
Mi stupisco e vado fiera dei miei progressi. Non guardo (se non con una punta di polemica, secondo me, giusta) al lavoro altrui, ma, osservandolo, mi fortifico nella convinzione che scrivere è davvero un’impresa titanica, sempre più spesso sottovalutata o, meglio, sempre più spesso ritenuta di facile approccio, in fondo che ci vuole: basta avere un’idea, maneggiare un buon lessico, conoscere perlomeno le regole grammaticali e chiunque può avventurarsi. Ma non è così. Non dev’essere così.
Esigo molto da una lettura, tuttavia non so nemmeno essere indulgente con me stessa, mentre scrivo, soprattutto se il mio obiettivo è produrre un discreto prodotto.
Quando, però , a peccare di inefficienza sono i canali ufficiali, che dovrebbero sposare per statuto la filosofia della buona scrittura, allora mi cadono le braccia (e so che in un semplice post, il luogo comune posso ancora permettermelo!)
Parlando a titolo personale sono giunto a conclusione che la revisione è importante, ma infine bisogna anche "buttarsi". Prima di restare bloccati in un loop interminabile di riscritture e revisioni che finiscono col farti odiare ciò che stai scrivendo, è meglio non eccedere con le revisioni. Alla fine è meglio dare una forma definitiva al testo e amen, confidando che avesse ragione Simenon quando ironizzava su quelli che parlano in continuazione del romanzo che stanno scrivendo e che non riusciranno mai a concludere.
RispondiEliminaIo, purtroppo, preferisco scrivere meno, perché - e ribadisco purtroppo - non riesco a buttarmi, cioè lo faccio, ma poi è più forte di me: ho sempre la tendenza a intervenire. Ricordi la mot juste di Flaubert? Finché non la trovo non sto tranquilla. Ma infatti, non scrivo cose importanti, ormai, da una vita: troppo lavoro! :)
EliminaIo ho eliminato dal mio romanzo un capitolo che mi piaceva moltissimo. Proprio perché mi piaceva e poi perché era un "omaggio" a Fedor troppo evidente. In realtà non l'ho eliminato, ma riscritto. Riguardo poi il lavoro di certi editor o case editrici: spesso si incontrano autentici abomini. Non capisco come sia possibile, cosa spinga una casa editrice a "spararsi nei piedi" pubblicando prodotti mediocri.
RispondiEliminaLo penso anch'io. A me il lavoro viene difficile, ma ci tengo e non sono nessuno. Una casa editrice dovrebbe vivere la resa della scrittura al top per missione e invece, non lo so, forse sfrutta la fama o insegue solo il desiderio di fare soldi. Va bene, è un'azienda, ma la qualità dovrebbe essere l'obiettivo primario di un sistema imprenditoriale. Scuoto la testa, molto delusa.
EliminaD'accordo Marina, nel rivedere un testo la parola d'ordine è "asciugare". Ma non eccessivamente! Si rischia di impoverire il racconto di quei particolari che fanno uno stile.
RispondiEliminaInoltre, scopo di una narrazione non è la comprensione nuda e cruda di una trama, ma la creazione di tutto un contesto che fa VIVERE al lettore quella trama. E allora sentiti libera di essere te stessa con tutti gli aggettivi che vuoi, senza badare troppo a certi editor piuttosto discutibili.
Buon lavoro, carissima!
Ma sai qual è il mio problema? io sono me stessa veramente quando rileggo ciò che scrivo e mi piace, sono appagata dalle parole, dai suoni che esse producono e dalla sensazione che suscito in me stessa e dunque - spero - anche negli altri. Asciugo quando è richiesto, come in questo caso dalle regole di un concorso, ma sono convintissima che gli aggettivi, talvolta, appesantiscano la narrazione, invece di qualificarla al meglio. Come una torta già buona in sé che arricchiamo di zuccheri per darle la massima dolcezza. :)
EliminaIo mi "riedito" in continuazione, forse per questo non mi dedico al "romanzo", sarebbe un gioco al massacro, mi limito al raccontino breve, al "post", che fino al secondo precedente la pubblicazione, rimane cantiere aperto. Quindi la difficoltà nello scrivere la identifico nella mia personale soddisfazione di esporre come vorrei, come desidero, come meglio mi aggrada in determinate circostanze rispetto a ciò che narro. Poi ovvio, mettendosi in gioco quando c'è da rispettare determinate regole alimenta e perfeziona anche ulteriore autodisciplina e consapevolezza dei propri mezzi e della capacità di adeguarsi. La si prenda come gioco. Ma con serietà ;)
RispondiEliminagiugno 2025 alle ore 16:03
EliminaPer lo stesso motivo, sono anni, ormai, che non metto più mano a narrazioni lunghe. Sarebbe un lavoro immane e non ho più trovato tempo e stimoli giusti per portare avanti un'attività del genere. Come te scrivo anche per gioco, ma sono serissima, accidenti e quando mi rileggo voglio sentirmi appagata, senza pretendere di piacere a chi mi leggerà. Se io fossi una editor poveri scrittori! Sarei una rompiballe pazzesca.
Piccolo aneddoto: ultimamente mi è stata chiesta una collaborazione per un libro scritto da un'aspirante. Le ho fatto da beta reader solo per il primo capitolo: non ci sono andata tanto leggera (con garbo, eh!), lei c'è rimasta malissimo e da quella volta non l'ho più sentita. :D :D :D
No, per dire! :D
Elimina
La qualità di un prodotto dovrebbe prescindere dalle variabili: il pubblico è potenzialmente quello degli adolescenti? Diamogli in pasto una scrittura banalotta e appena formalmente curata, tanto loro si accontentano di poco. Io sono dell'idea che se vuoi scrivere devi farlo bene e questo vuol dire molte cose. Capisco, invece, chi scrive discretamente una storia, però si affida alla cura di un editor per migliorare quei punti che, magari, sono passati inosservati alla sua analisi. Non siamo perfetti e l'editing dovrebbe servire ad avvicinare la scrittura alla perfezione. Quando , però, anche questo lavoro è carente, allora resto profondamente interdetta: capisco le esigenze imprenditoriali, però ne va anche del buon nome. Non per niente la media e piccola editoria è di gran lunga superiore, a mio parere, delle major, che spesso sono un inganno (ovviamente generalizzo).
RispondiEliminaNon puoi trattare un testo con la superficialità con cui è stato trattato questo della Kuroki, e non parlo della storia, quella piace , non piace, piace meno, non importa, ma se anche la lettura insegna a scrivere, cosa s'impara da un libro del genere?
Perché si deve per forza "imparare" da un libro? Uno non può semplicemente leggere solo per esclusivo divertimento? Per staccare la mente dal dramma quotidiano e svagarsi con semplicità, senza star lì a contare gli aggettivi, gli avverbi, le virgole, i "disse" e i "rispose"? Legittimo che tu voglia leggere solo libri di qualità, e di qualità elevata se li confronti tutti con La Recherche di Proust. Ma il rischio è di rincorrere la perfezione senza mai trovarla (che la perfezione non esiste nell'Uomo). Magari è anche questo a bloccare la tua scrittura: finché resta un'idea, resta perfetta, senza forma alcuna; quando arriva sulla carta, non ci soddisfa mai e ci fa male vederla così claudicante; e allora preferiamo lasciarla là, tra le idee perfette mai realizzate. E' un tema affrontato in uno dei corsi di scrittura, con riferimento al saggio La pazza di casa di Rosa Montero. Si evita di scrivere, perché sì, scrivere è difficile, ma "licenziare" un testo richiede coraggio.
RispondiEliminaMa sai, parlo di un'acquisizione indiretta: non leggo per imparare, ma so che, indirettamente, leggendo, acquisisco: un metodo, una forma, uno stile. Quindi sono d'accordo che ci si possa dilettare con una lettura più leggera, poco impegnativa, ma so che, volendo scrivere bene, sarebbe più utile frequentare altra narrativa (e non per forza quella di Proust o dei classici che amo tanto: di recente ho letto un libro del contemporaneo islandese Jon Kalman Stefansson e ancora ripenso a certi passaggi incantevoli, alla struttura originale, alla poesia chiusa in taluni periodi...)
RispondiEliminaNon è un blocco quello che vivo, bensì una scelta consapevole: non mi butto nella scrittura di un romanzo perché la ricerca della perfezione (che è più una fuga dalla mediocrità) è una malattia dalla quale non voglio guarire.
Tutto quel che vogliamo, ma la questione di base - a mio parere - rimane sempre la professionalità e la serietà di quel che scriviamo.
RispondiEliminaIo per primo ho sempre detto - e scritto - che l'autore deve essere il primo editor di se stesso: dobbiamo scrivere, controllare, tagliare, aggiungere, buttare...anche se a malincuore. Perché se qualcuno ci legge - se spende i suoi denari e soprattutto la cosa più preziosa che ha, il tempo, per noi - allora dobbiamo dare il prodotto migliore che possiamo fare.
Tanti anni fa una conoscente - agente letterario - mi chiese di dare un'occhiata e eventualmente correggere un manoscritto, per mancanza di tempo. Io accettai (non ho mai più commesso questo errore) e alla fine non solo erano più le mie correzioni in rosso che il testo originale in nero...ma non arrivai nemmeno alla fine da quanto il testo faceva pena!
Fu pubblicato comunque.
Va bene, non sono stato tenero in quell'occasione, ma non posso, in coscienza, far passare un testo che fa acqua da tutte le parti!
Questione di serietà e professionalità, dove la professionalità esiste - e deve esistere - indipendentemente dal fatto che siamo o no scrittori affermati.
Perché chi ti legge, come dicevo, spende la cosa più preziosa per noi tutti: il tempo.
Ciao!
Gabriele
D'accordo con te su tutta la linea. Infatti sostengo che chi scrive non debba farlo con la superficialità di chi dà per scontata la perfezione, anche se poi il lavoro importante resta a carico delle figure professionali che lavorano per una casa editrice: se sono per prime loro a trattare con superficialità un romanzo e questo solo perché tanto immaginano che il prodotto sia ugualmente vendibile (sol perché fa presa sui giovani o perché l'autore/trice ha molti followers...), allora non c'è proprio dove andare!
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RispondiEliminaMentre leggevo il tuo post, mi è tornato in mente un libro (premio Strega, tra l’altro) che ho trovato davvero illeggibile: prolisso, infarcito di aggettivi, scritto in uno stile che sembrava compiacersi della propria difficoltà. Questa, almeno, è stata la mia percezione. A volte, un libro dovrebbe semplicemente lasciarsi leggere: chi legge cerca anche evasione, non sempre ha voglia di tornare indietro venti volte per cercare di capire cosa voleva dire l’autore.
Detto ciò, in fase di revisione trovo utile “asciugare” il testo per migliorarne la fluidità. Ma qualche aggettivo, se non appesantisce, a me piace lasciarlo. Poi in fondo sono d’accordo con il commento di Ariano, alla fine bisogna “buttarsi”
Mi butto, ma poi è più forte di me, devo ritoccare dove inciampo mentre mi rileggo. E quanto a Premi vari vinti chissà perché, con me sfondi un portone. :)
EliminaSi tratta di "quel" concorso? :)
RispondiEliminaSì, scrivere è un'operazione molto difficile e sono d'accordo col fatto che circolino sempre più pubblicazioni sciatte e prive di cure anche minime. Che il pubblico poi le preferisca in particolare spiega il loro successo e ciò avvilisce non poco. Fra le autrici che abbiamo incontrato lo scorso anno a quell'evento sul self-publishing Simona Fruzzetti ha pubblicato di nuovo, e ovviamente in self. Sono andata a leggere l'incipit, "regolare" ma scontato, piatto. La prima persona poi è diventata un must. Non è per dirne male, tanto di cappello a chi sa promuoversi, crearsi un "personaggio", curare una community, ma questa è la realtà attuale e mi sorprende a questo punto che una come lei non venga pubblicata da un editore quando il romanzetto che abbiamo letto è molto al di sotto dal tollerabile.
In realtà è stata pubblicata da PIEMME ma con il self guadagna di più e ha venduto tanto, quel pubblico esiste, possiamo non appartenere ma non possiamo ogni volta - per me - gridare allo scandalo per la qualità scadente. Faccio sempre questo esempio, anche Mc Donald non è di qualità ma diamine prospera e almeno una volta ci siamo andati tutti. Se poi vogliamo argomentare potremmo anche distinguere tra narrativa e letteratura, sono due campionati diversi.
EliminaSandra, con me sfondi una porta aperta. Sono stata molto volentieri all'Amazon Storyteller a Roma lo scorso anno e mi sono portata dietro Marina, molto ma molto più diffidente di me riguardo al self-publishing. E anche lei è rimasta favorevolmente colpita dalla buona energia che c'era. Poi dovevamo farci un post, uno dei nostri Caffè, perché Marina ha letto il libro della vincitrice, autopubblicato, chissà forse ne riparleremo nei prossimi mesi. Che ci sia tanta narrativa scadente fra gli autopubblicati non esclude che ve ne sia di ottima. Ma questo l'ho credo da sempre.
EliminaMi hai fatto ricordare che Fruzzetti è stata pubblicata da Piemme, ne parlò all'incontro, e proprio la sua intervista, assieme ad altre scrittrici del self-publishing, mi ha reso certissima che sapersi creare una vasta e attiva community e gestirsi da sé è una cosa ammirevole. È una realtà parallela non di serie B, solo diversa. Certo, essere pubblicati da un editore (e personalmente intendo editori di certo tipo, non quelle casette editrici di cui si sente parlare in termini non proprio entusiastici) è altro, ma queste realtà esistono e a buon diritto.
* LO credo ovviamente.
EliminaSì, Luana, di "quel" concorso. Lo sai che mi piacciono le sfide e ho colto subito al volo questa, anche se con un racconto che tenevo nel cassetto e non con una cosa nuova. Eppure "nuovo" lo è diventato, il racconto, perché rimaneggiarlo mi è stato utile per esercitare la mia fissa per la buona scrittura e ne è venuto fuori qualcosa di leggermente diverso dall'originale, ma a mio avviso migliore.
EliminaSai come la penso sulla narrazione contemporanea e quella prima persona o il tempo al presente, sai quanto mi stiano antipatici novanta volte su cento e dunque comincio una lettura sempre sbuffando se riscontro i consueti parametri odierni. Vorrei stupirmi, qualche volta e , in effetti, il libro autopubblicato, vincitore, di quella competizione, a me non è dispiaciuto. Il punto rimane quello: c'era della qualità e ormai ho ben capito che ci può essere qualità in un libro autopubblicato e zero qualità in uno regolarmente pubblicato da una casa editrice. L'ultima lettura condivisa ne è stata una prova.
E, per rispondere a @Sandra, questa scrittrice ha un suo seguito e io sono contenta per lei, è giusto che sia così: si è guadagnata la sua fetta di pubblico, e non mi fa specie che una casa editrice approfitti di questa popolarità per pubblicare il libro sotto un'etichetta ufficiale, mi dispiace riscontrare la scarsa attenzione verso il prodotto, come dire che la casa editrice si accontenta di guadagnare molto grazie alle vendite del libro, senza alcun interesse verso ciò che dovrebbe sentire come una missione: consegnare al pubblico un prodotto - appunto - di qualità.
Scrivere per pubblicare e farsi scegliere è un'operazione che richiede energia, tempo e magari una buona idea di fondo e qualche tecnica di narratologia. Poi magari si rimane relegati ai piccoli editori per una serie di motivazioni talmente lunga che occorrerebbe un post, ma del resto da me l'argomento è stato trattato più volte. O magari con un guizzo si fa il salto, ne conosco alcuni a cui è capitato (un nome su tutti Emily Pigozzi) e molti di più che hanno mollato. Se manca il piacere allora è un grande no, se la frustrazione prevale sulla gioia, tocca valutare quanto la frustrazione ci stia avvelenando, se si trova - come ho fatto io ma ci ho messo anni - un equilibrio allora diventa un immenso Sì, ma la quantità di ore che ho passato al pc e anche a rodermi va detto e sopratutto a studiare frequentando corsi qualificati è davvero smisurata, tempo sottratto ad altro, bisogno fondamentalmente averne voglia.
RispondiEliminaSì, e credo che a me, per esempio, manchi del tutto questa voglia, per questo mi soffermo poco sul mio modo di scrivere in funzione di una possibile futura pubblicazione, perché è sicuramente vero che occorrono abnegazione e sacrificio, se si vogliono raggiungere certi risultati e ammiro molto chi crede fermamente in ciò che fa, ma anche sentire la responsabilità di consegnare al pubblico un prodotto ben fatto è un elemento da non sottovalutare in questa corsa verso il traguardo.
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