Nei primi anni di università cominciai a leggere un libro che abbandonai al capitolo due. Ricordo che l’illeggibilità dell’incipit mi fece sbroccare subito e ci rinunciai con il rimpianto di non aver saputo riconoscere un capolavoro.
Parlo di “Arancia meccanica”, il romanzo di Anthony Burgess, che ho riapprocciato di recente, attribuendogli una malia sotterranea capace, alla fine, di condurmi all’ultima pagina con grande trasporto.
Parlo di “Arancia meccanica”, il romanzo di Anthony Burgess, che ho riapprocciato di recente, attribuendogli una malia sotterranea capace, alla fine, di condurmi all’ultima pagina con grande trasporto.
L’ho citato qualche giorno fa durante una conversazione con i miei figli su quanto accaduto a Manduria, constatando come un romanzo si sia attualizzato al punto da farmi immaginare un gruppo di soma intenti a rovellarsi il cardine su come passare la serata e, trovatolo all’indirizzo di un pover’uomo, a tenergli le granfie, spalancargli il truglio e sbarbicargli gli zughi falsi.
Non è, però, del fattaccio di cronaca che voglio parlare, bensì di un argomento strettamente letterario: l’apparato stilistico di “Arancia meccanica”, che mette in primo piano l’uso di un gergo linguistico inventato dall’autore per caratterizzare la propria opera e renderla senza tempo.
Un linguaggio ordinario avrebbe conferito ordinarietà anche al romanzo: esso sarebbe rimasto un riuscito prodotto dell’epoca sull’importanza della scelta fra il bene e il male, invece Burgess dà al narratore una voce unica che regala unicità anche alla storia. Crea il Nadsat, slang giovanile derivato da un mix di parole inglesi e russe, con innesti di totale invenzione. Sulle prime, questo è un linguaggio che spiazza, la lettura è ostica, il cervello s’inceppa nel tentativo di tradurre la sequenza di vocaboli insensati che fin dall’inizio introduce il lettore nella testa di un quindicenne squilibrato. Alex, in compagnia dei drughi con cui fa comunella, perpetra una serie di azioni violente, rifugiandosi poi nell'estasi della musica classica; è lui la voce narrante, che parla usando termini comprensibili solo per intuito o per onomatopea:
“Il mattino dopo mi svegliai alle zero otto zero zero, fratelli, e dato che mi sentivo ancora sgarrettato e sbasito e fané e avevo i fari appiccicati insieme da una sonnocolla cinebrivido, pensai che a scuola non ci sarei andato. Pensai che sarei rimasto ancora un piccolopoco nel letto e poi mi sarei vestito perbenino e con comodo, mi sarei fatto magari anche uno splash nel bagno, e poi mi sarei fatto un buon cià forte e cinebrivido e anche dei toast e avrei snicchiato la radio o letto la gazzetta tutto solicello.”
230 pagine scritte così sono un esercizio di attenzione e di pazienza, ma dallo sconforto del primo, fallito, tentativo di lettura, anni fa, sono passata a una capacità diversa di assimilazione, che mi ha regalato il piacere di sfoggiare un lessico nuovo e di capirlo: parole come zughi, sguana, mottata, truglio, festone, cardine, malcico e verbi come snicchiare, scricciare, ueueare, glutare, a un certo punto sono entrati anche nel mio vocabolario personale e una volta ho scricciato a mio figlio: “ehi, malcico, se non chiudi quel truglio, con un festone ti faccio cadere tutti i drughi!”
Burgess ha decisamente creato un libro cult adatto a ogni generazione. E sono contenta di averlo riletto con uno spirito diverso e una curiosità matura.
Un gergo di non così immediata comprensione riesce persino a rendere più sopportabile la violenza raccontata da Alex, creando quasi un distacco salvifico dalla descrizione di ogni singolo, efferato, atto.
“Allora cominciai a strappare i fogli e a spargere i pezzettini per terra, e questo poldo scrittore cominciò a dar di fuori da scardinato e fece per saltarmi addosso con gli zughi serrati e le unghie pronte come artigli. Bamba non aspettava altro e ghignando e facendo rrr e poi mirò al truglio di questo martino, crac crac [...] - Va bene, Bamba , - dissi. - E ora l’altra trucca, che Zio ci aiuti -. Così lui fece il forzuto con la mammola che stava ancora scriiiiiiiicciando a tutto spiano come una sirena cinebrivido, tenendole le braccia dietro la schiena mentre le strappavo questo e quello e quell’altro, gli altri che facevano ancora hau hau hau, e furono dei gran bei tuberi che apparvero alla vista con i loro piccoli fari rosa in cima.”
Leggendo senza che ci si soffermi sulle parole si capisce perfettamente cosa sta accadendo, ma il cervello non registra tutto l’orrore che scaturirebbe da una descrizione realistica. O almeno questa è stata la mia percezione, consolidatasi facendo un paragone con un altro libro letto qualche anno fa, “Il branco” di Andrea Carraro, che fotografa l’accanimento di un gruppo di giovani balordi su due ragazze e lo fa in modo spietato e senza filtri.
E l’attività di traduzione? In casi come questi diventa un’impresa complicata cinebrivido: immagino la traduttrice (Floriana Bossi) alle prese con la trasposizione di termini inventati, che devono avere perlomeno un’assonanza con gli originali o richiamarne il concetto: allora vada per malcico derivato da malcikko (ragazzo), drugo da droog (amico), cricciare da creech (urlare), ma perché cal diventa sguana (merda), clop festone (colpo) o rot truglio (bocca)? Parrebbe quasi che ogni traduzione abbia fatto nascere una lingua nuova in tutti i Paesi in cui il libro è letto.
Non è la prima volta che mi imbatto nelle fantasie linguistiche degli autori e ho scoperto, in tarda età, di trovarle intriganti: penso alla “neolingua” di Orwell, con la divisione delle parole in tre classi distinte (lessico A, lessico B e lessico C) o al “gliglico” di Cortázar, idioma che usa combinazioni di suoni della lingua spagnola e diventa una parentesi giocosa nelle conversazioni fra Horatio Oliveira e “la Maga”, sua amante.
Saremmo capaci, noi, di partorire fantasie del genere? È solo il risultato di studi particolari, una forma di talento straordinario, un consapevole sfoggio di abilità linguistiche?
Qualcuno, tempo fa, ci ha messo alla prova e ci siamo divertiti molto, allora.
Ecco, forse la differenza tra questi grandi scrittori e noi che non lo siamo è che loro hanno tratto dalla propria genialità delle opere universali, noi sembreremmo soltanto dei matti burloni.
Anche io ho tentato di leggerlo ma è davvero pesante.
RispondiEliminaOrwell invece lo adoro in tutto e per tutto.
Arancia meccanica credo avesse un'altra chiave di lettura che non comprendeva il portento stilistico ma lo sopportava perché la storia aveva da dire molto.
EliminaMa alla fine anche se la scelta di parlare come parlava il protagonista non fosse stata azzeccata il libro sena il genio di Kubrik non sarebbe nulla.
TI confesso che non ho mai visto il film di Kubrik, dunque non so fare un paragone tra il romanzo e la sua realizzazione cinematografica. Conosco solo il protagonista, perché, in questo ruolo , mi ha sempre messo addosso una discreta inquietudine. Nel libro che ho letto, alla fine, c’è un intervista a Kubrik che dice cose molto interessanti: la fortuna di “Arancia meccanica” è anche certamente dovuto al binomio Burgess/Kubrik.
EliminaComunque, la sua pesantezza è superabile proprio in virtù di quello che hai sottolineato tu a proposito della storia che ha molto da dire: fa riflettere. Sconvolge, ma induce a fare dei ragionamenti importanti. Per me è stata una preziosa riscoperta.
(Così, adesso, sei Neutrina?) 😉
Io lo sono da quando sono nata 🤩sono gli altri che si ostinano con Anna 🤣
EliminaE no. Questo libro non fa proprio per me. Persino il film mi sembrò troppo macchinoso.
RispondiEliminaComplimenti per essere riuscita a leggerlo e ad apprezzarlo.
P.S. Non perderti il mio post di oggi. Ho parlato di editoria, e sono certa che avresti qualcosa di prezioso da aggiungere.
Un bacio
Ti capisco, ma ti invito a riconsiderare la possibilità di apprezzarlo alla luce del messaggio che porta con sé la storia.
EliminaNo, non riuscirei a leggerlo neppure se mi pagassero per farlo. E se devo essere sincero ho mollato a metà anche il film di Kubrik (e sono uno di quelli che ho adorato le tre ore di "Barry Lindon", quindi non un anti-kubrikiano).
RispondiEliminaLa risposta che ne consegue è automatica: non saprei scrivere un romanzo con un lessico "inventato". Credo fortemente nella regola "scrivi ciò che vorresti leggere", e un testo del genere la accetterei per poche pagine, come una provocazione, come un codice di cui poi venga fornita la chiave, oppure con personalizzazioni minime (tipo il "siciliano" di Camilleri, che si limita a poche parole e alcune sintassi, tanto per dare il colore del dialetto ma lasciandolo di fatto italiano).
Ma farlo in modo così massiccio, esasperato, no, non fa per me. Né come lettore né come scribacchino.
Erano le mie osservazioni di qualche anno fa, mi dicevo “ma chi me lo fa fare, non me lo ordina mica il medico!”; eppure, dopo averlo letto, mi rendo conto che il modo i nostri cui è scritto ha un suo perché che rende il romanzo universale. Continua a non è essere obbligatorio leggerlo, ma sostengo ne valga la pena, perché dietro questo linguaggio c’è tutto un mondo che va indagato. Succede che dopo un po’ ti abitui e non fai nemmeno più tanta fatica a capire il testo, il cervello registra in modo automatico il significato delle parole, ma ciò che più resta è l’atmosfera che quel modo di parlare ha generato: surreale nella sua cruda realtà. Una sensazione strana, che mi ha scosso e, per questo, mi ha lasciato dentro qualcosa di significativo.
EliminaLetto con gran piacere un paio di volte, a distanza di una ventina d'anni l'una dall'altra.
RispondiEliminaMolto più di recente, e ne ho parlato nel mio blog, ho affrontato un'altra lettura con lingua inventata, almeno nei capitoli iniziali: "La voce del fuoco" di Alan Moore. Ma l'intento è diverso, perché Moore vuole in questo caso mostrare una sintassi primitiva:
Lontano in dietro a colle, là verso sol-che-scende, cielo è ora come fuoco e io fa cammino lì, senza fiato in pancia, ed erba fredda e bagna piedi a me (A-hind of hill, ways off to sun-set-down, is sky come like as fire, and walk I up in way of this, all hard of breath, where is grass colding on I’s feet and wetting they).
Le prima 47 pagine del libro sono scritte tutte così, in forma di lungo monologo interiore. Poi, di capitolo in capitolo, il linguaggio si approssima sempre più alla forma moderna.
Lo sai che mi ricordo del libro che citi, perché mi ha colpto quando ne hai parlato? Anzi, mi farebbe piacere se tu linkassi qui quel tuo post, vorrei rileggerlo, se non ti dispiace.
EliminaVolentieri, Marina. Il link è questo: https://ivanolandi.blogspot.com/2017/01/alan-moore-il-maiale-di-mag-e-i-campi.html
EliminaHo poi proseguito con un secondo post: https://ivanolandi.blogspot.com/2017/01/alan-moore-da-i-campi-di-cremazione-la.html
La mia intenzione iniziale era di affrontare tutto il libro, ma già dopo un mese i miei ricordi non erano più così nitidi come all'inizio e per continuare avrei dovuto rileggere tutti i capitoli successivi e sul momento non mi andava di farlo. Così ho desistito dal proposito.
Sì sì, ecco, me ne sono ricordata! Nel primo avevo anche lasciato un commento sulla mia sorpresa di fronte al coraggio di affrontare una lettura del genere, però adesso capisco quando hai detto che, leggendo, alla fine ti abitui quasi a quel linguaggio e ai suoni delle parole e la comprensione non risulta poi così ardua. Quello che è accaduto con Arancia meccanica.
EliminaHo riletto con piacere. Grazie.
De nada. Anzi, grazie a te :-)
EliminaMai letto quel libro e non lo leggerei mai. Non riuscirei proprio ad andare avanti. Io non riesco nemmeno a leggere Camilleri, figuriamoci questo! Né scriverei mai qualcosa del genere, questo è ovvio.
RispondiEliminaNon è nelle corde di nessuno, questo è certo: io sembrerei una pazza se mi inventassi un linguaggio nuovo per raccontare una storia, eppure qualcuno è riuscito a fare di questa follia un acclamato capolavoro.
EliminaCapisco che non riesca a coinvolgere tutti con lo stesso entusiasmo, ma, superato il pregiudizio, credo resti l’importanza della storia in sé, che andrebbe letta.
Camilleri lo adoro ma i pochi stralci che hai segnalato di questo scrittore invece non mi hanno fatto nascere la voglia di conoscerlo meglio. Io non sarei mai capace di inventare un linguaggio nuovo e nemmeno un mondo (stile fantasy) ho bisogno di ancorarmi molto alla realtà.
RispondiEliminaOnestamente neanch’io. Però, non avrei mai pensato che un giorno ne avrei subito il fascino! È stata una scoperta che mi ha spiazzato, perché comunque la trama è incredibile: un teppista al quale viene imposto un trattamento rieducativo che lo abiliti a compiere il bene e in che modo, poi! È il dilemma che ne scaturisce: il male è una scelta, al pari del bene. È giusto forzare una volontà, “programmare” la bontà?
EliminaGuarda, inorridisci, ma ci pensi su, eh!
Dal basso della mia esperienza narrativa di lettore, un testo del genere per me è semplicemente irricevibile.
RispondiEliminaUn po' come quelli che vengono scritti in modalità "flusso di coscienza": saranno anche capolavori, ma io proprio non riesco ad apprezzarli. :-P
Ci sta. Del resto, questo libro è una sorta di manifesto sull’importanza di poter scegliere, come recita la quarta di copertina. 😉
EliminaAlla tua domanda ti rispondo, no, non riuscirei mai!
RispondiEliminaConfesso anche che non leggerò mai questo libro. Un po' per sensibilità (mi vengono i brividi a sentire o vedere violenze) ma soprattutto perchè non mi piace lo stile.
Cpnfesso il mio limiteQ!
Ciaooo
Ti capisco. E poi ci sono letture che vanno fatte in certi momenti, cioè devi esserne ben disposta, se no diventa un peso, non più un divertimento, come ogni lettura dovrebbe essere. Non è un limite, sono scelte legittime. 🙂
EliminaScusa gi errori ma non ci vedo granchè!
RispondiEliminaE poi, qui, è scritto tutto talmente piccol, accidenti! 😉
EliminaMia nonna chiamava "drughi" gli stupidi del paese, ma dubito fortemente che avesse letto Arancia Meccanica!! :D
RispondiEliminaHo provato a guardare il film, anche recentemente, ma mi viene su solo un terribile fastidio per cui li prenderei io a randellate da mattina alla sera quei quattro fannulloni annoiati.
In quanto al linguaggio, considerato geniale, c'è da riflettere sul fatto che sono esempi provenienti dall'estero, non nel senso di essere sottoposti a traduzione, ma da un mercato diverso (e anche da epoche differenti). Qual è l'editore italiano che oggi rischierebbe di pubblicare un libro del genere??
Forse lo farebbe se l’esperimento fosse di uno scrittore già noto. Del resto, non è che sia proprio facile reggere un intero romanzo scritto tutto con un linguaggio inventato: o sei uno che non puoi mandare a quel paese o c’hai un santo in paradiso ( e dentro una casa editrice) che riconosce il tuo genio. Io, però, non rischierei. (Più che altro non ne sarei capace, anche se con il Thriller mi sono passata lo sfizio. 😉)
EliminaIo ricordo il film per averlo purtroppo visto da giovanissima ed esserne rimasta scioccata (mai quanto Le 120 giornate di Sodoma e Gomorra di Pasolini che ci propinarono a un corso universitario). Sono sempre stata troppo sensibile per la violenza raccontata con questa verosimiglianza. Insomma, Kubrick si sa è stato un maestro immenso della pellicola.
RispondiEliminaIl passaggio del libro mi piace, concordo con tutti i passaggi in cui si dice che non è poco saper coniare neologismi. Per certi aspetti mi ricorda la metasemantica del Lonfo di Fosco Maraini. Hai ragione quando dici che è uno stile che intende celare la violenza della scena, riuscendoci benissimo.
Ho letto il post sul blog di Helgaldo.
La tua versione era... era... troppo troppo giusta. Bellissima, Mari'.
Grazie, Luà, in quell’occasione è stato divertente mettersi alla prova. Ci ho riso su, ma poi mi sono detta che solo così potrei azzardarmi a scrivere usando dei neologismi, perché una storia vera e seria mi farebbe sentire incompetente.
EliminaIo il film non l’ho ancora visto, ma conto di farlo: Kubrik è un maestro e poi, a questo punto, sono molto curiosa.
questo libro non mi attira per niente..
RispondiEliminaho visto il film..e non mi ha entusiasmato..
devi vederlo perchè è imprescindibile dal testo..almeno secondo la critica..sarebbe interessante il tuo parere..
troppo barocca e forzata per me la prosa..
Sì, è una prosa che fa un effetto davvero straniante, però credo che la sua vera forza sia proprio questa. Del film ho visto l’inizio su YouTube, così per capire un po’ com’è e... non so, quella voce fuori campo con quelle immagini che mi è sembrato avessero qualcosa di visionario, mi ha spiazzato. Ma lo vedrò, se non altro per verificare se la realizzazione cinematografica segue da vicino la storia narrata nel romanzo. L’attore, però, è straordinario in questo ruolo.
Eliminacapolavoro. va letto tra le righe, offre spunti di una società immaginata, all'epoca, come distopica e temuta.
RispondiEliminaSono d’accordo. Il messaggio è forte e alcuni passaggi sono emblematici. Accanto alle emozioni che sorgono spontanea, entrano in gioco altri elementi che portano a fare altre valutazioni interessanti. Non è una storia di violenza fine a se stessa, c’è molto di più dietro. Per questo ritengo che sia un testo che andrebbe letto.
EliminaIl segreto è appunto quello di leggerli tutti di un fiato senza soffermarsi sulle quelle parole. Non è in fondo molto diverso da leggere un libro in inglese sorvolando sui quei termini di cui non si conosce il significato: lo scenario alla fine si completa da solo anche se qualche dettagli rimane indietro. Stanley Kubrick ha poi reso “Clockwork” un capolavoro indimenticabile, ma non è stato l’unico a trasformare il romanzo in immagini, sapevi? Lo aveva fatto anche Andy Warhol...
RispondiEliminaÈ vero: è una lettura che ti entra in circolo dopo che il linguaggio ti trascina dentro quel circuito: gergo (e libro) odiato all’inizio, amato alla fine. Andy Warhol, una figura dal fascino ambiguo che ha sempre catturato il mio interesse: dunque... che ha fatto?
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