Ho abitato a Morena, i primi tre anni della mia nuova vita a Roma. Vivevo in una casa con veranda e giardino, al piano terra di un’elegante palazzina. La zona era tranquilla, lo spazio esterno vitale, i vicini di casa belle persone, con l’unica eccezione della zitella del piano di sopra ossessionata dal pianoforte suonato da mio figlio: giovane, eh, perché quando uno dice “zitella” l’idea immediata è quella di una vecchia pettegola, invece questa aveva persino meno anni di me, eppure rompeva i maroni come una che ha superato l’esame in materia con il massimo dei voti. E comunque, dicevo... abitavo lì fino a tre anni fa.
Sì, sono passati tre anni dal mio secondo trasloco e sei da quello “padre” di tutti gli addii.
Non mi sembra più ieri che viaggiavamo in macchina dietro a due tir di una ditta siciliana di traslochi, ma resta sempre poco il tempo trascorso da apolide in una città che non sento mia, lontana da quella che non lo è più, un paradosso che non supero: straniera a Roma, che non mi appartiene in nulla e straniera anche a Caltanissetta, che è andata avanti senza di me, lasciandomi con i ricordi di allora.
Tuttavia ho un pregio (e scusate la modestia), che appartiene alla sfera buona del mio carattere: ho una grande capacità di adattamento. Così, non appena ho realizzato che le chiavi di casa avevano un’altra forma, ho lanciato la sfida al tempo che avrei impiegato per ambientarmi e per ovviare agli effetti della nostalgia attaccata alla gola come un cane al suo padrone, mi sono lasciata investire da un’orda di interessi e novità, utili a controbilanciare il mio stato d’animo.
In buona sostanza, ho ricominciato tutto da capo e al terzo anno di residenza romana ho riaffidato imballaggio, carico e scarico di mobili a un'altra ditta di traslochi e ho ricambiato abitazione, avvicinandomi al centro. Ho abbandonato l’Anagnina, familiarizzato con l’Appia Nuova, soprattutto - cosa grandiosa - adesso raggiungo la stazione della metro a piedi, in due minuti.
Casa nuova, quartiere nuovo, strade nuove, sono partita ancora una volta da zero e, ancora, contando sul mio spirito, quello di cui sopra, sono sopravvissuta al secondo spostamento.
Sono una residente a tempo, oltreché nissena trapiantata e apolide di concetto.
A ogni modo, prima mi affacciavo in veranda e mi godevo la fetta di cielo che sovrastava i campi di calcio di una struttura sportiva con cui confinavamo (per il resto avevamo palazzi attorno), ora dal mio quarto piano vedo i tetti degli edifici distanti da me e il panorama urbano è affascinante. Non ho perso il vizio di allestire gli spazi esterni a mo’ di salotto, con sedie, un tavolino e i miei due ficus benjamina esposti all’aria aperta. Quando arrivano le belle giornate, trasferisco il quartier generale al balcone, fortunatamente largo abbastanza e una delle prime volte in cui mi appollaiavo nella sdraio con un libro in mano mi soffermai a osservare una scena finita naturalmente in un quaderno, tanto mi parve straordinaria.
È questa l’eco che mi giunge oggi: un ricordo del 2016.
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Tutti i giorni abbasso gli occhi sul giardino di una famiglia che vive al pianterreno del palazzo di fronte. Un bambino, che potrà avere cinque anni e due fratelli gemelli di quattro (immagino) si divertono con i loro giochi: una palla, la piscinetta di plastica riempita d’acqua, un cavalluccio a dondolo. Nascosto dietro una magnolia c’è pure un triciclo rimasto senza una ruota. I loro schiamazzi riempiono l’aria dell’estate. Sono rapita dalle trecce biondissime della bambina e dai nomi originali di tutti e tre: Ruben è il nome del primogenito, Fiona ed Enea sono i due gemelli. Quando si chiamano tra loro, li vedo muoversi a metà fra un cartone animato e un poema epico.
La madre è una donna corpulenta, che organizza gli spazi ed è molto efficiente; lascia sfogare i figli senza intervenire pure quando litigano; dà l’idea di essere pacifica e soprattutto paziente: non si altera mai, le grida dei piccoli non la scompongono e quando finisce di ripulire lo spiazzo, mettere in ordine i giochi, ritirare i panni asciutti dallo stendibiancheria, si siede davanti alla porta di casa, alla fine di una piccola rampa con la ringhiera e fuma una sigaretta. Mi chiedo se questa donna abbia un marito, se questi bambini abbiano un padre, non si vede mai.
Poi, però, un pomeriggio, mentre sono immersa nella mia lettura al balcone, sento la voce di un uomo provenire da dietro il palazzo e mi allerto; i figli, che come al solito sono fuori a giocare, mollano tutto (solo Fiona continua a strofinare per terra un pupazzo stringendolo per un braccio) e gridano: “papà!”. Tra poco, finalmente, saprò chi è. Infatti sbuca dall’angolo e la mia espressione cambia.
Poi, però, un pomeriggio, mentre sono immersa nella mia lettura al balcone, sento la voce di un uomo provenire da dietro il palazzo e mi allerto; i figli, che come al solito sono fuori a giocare, mollano tutto (solo Fiona continua a strofinare per terra un pupazzo stringendolo per un braccio) e gridano: “papà!”. Tra poco, finalmente, saprò chi è. Infatti sbuca dall’angolo e la mia espressione cambia.
I figli gli corrono incontro, uno si arrampica sulle sue gambe, si assesta sopra di lui e fa finta di guidare la macchina: “brum brum”, grida con le mani strette attorno a un volante immaginario; l’altra salta sulla pedana dove il padre poggia i piedi e schiaccia il muso del pupazzo contro il ginocchio al quale si avvinghia per non cadere; il più grande, con calma, si mette alle sue spalle e prova a spingere la sedia a rotelle dalle maniglie, anche se deve allungare molto in alto le braccia per riuscirci. Allora interviene la madre e lo aiuta a sentirsi utile.
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Sono trascorsi tre anni da quella scoperta: i gemelli vanno alle elementari, il fratello più grande è cresciuto molto. Con il bel tempo giocano sempre fuori, e quando arriva il padre sulla sua sedia a rotelle, Fiona lo saluta con un bacio, Enea gli sfreccia di lato col monopattino e Ruben spinge la carrozzina per qualche metro, senza allungare le braccia e senza farsi aiutare da nessuno.
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Molto bello come ricordo e molto bella la scena: vedere un uomo che, benché bloccato su una sedia a rotelle riesce a fare il padre tra la gioia dei suoi bimbi, dona coraggio, fa pensare che nessun problema, per quanto grave, possa fermare la voglia di vivere.
RispondiEliminaIo sono rimasta a bocca aperta, ma nel vero senso della parola. A parte l'ammirazione per la moglie, con quella seraficità che è un dono per riuscire a superare ogni difficoltà, ovvia, connessa al grave handicap del marito. Voglia di vivere, hai detto bene.
EliminaChe meraviglioso quadretto familiare. Dimostrazione del fatto che non servano gli arti per fare di un uomo un ottimo padre, ma soloil cuore.
RispondiEliminaAdesso, però, vorrei soffermarmi su di te, sul tuo entusiasmo e sulla tua sensibilità.
Ricominciare da zero non è facile. Io l'ho fatto una volta, e sebbene per ragioni lavorative sarebbe utile farlo di nuovo, mi rifiuto categoricamente.
Chissà, prima o poi mi convincerò.
Intanto cerco di affondare le radici ovunque io vada, per sentirmi meno spaesata..
Cuore e tanto coraggio. Ammirevole.
EliminaEh, cara Claudia, se penso al sacrificio dell'abbandono di tutto ciò che per più di quarant'anni mi è appartenuto, mi vengono ancora i brividi. Ma si trovano risorse ovunque e io qui, a Roma, ne ho trovate diverse e tutte hanno contribuito a farmi stare bene, nonostante tutto.
Sai cosa mi ha dato la vera spinta?
Il pensiero che forse i miei figli potranno chiedere e ottenere di più da una città come Roma che da un piccolo centro di provincia come Caltanissetta. Dunque, quando sarà, per te, pensa anche tu al vantaggio che un'eventuale scelta di cambiamento potrebbe ricavarne tuo figlio.
Mi piace questa scrittrice/osservatrice che descrive così bene ciò che le sta attorno. Come al solito, dinanzi al tuo racconto si si sente come una briciola di pane risucchiata dall'aspirapolvere.
RispondiEliminaE a me piace questa scrittrice espressiva che sa emozionarmi con le sue metafore colorite e sempre efficaci. :D :D
EliminaMi è sembrato per un istante il film di Hitchcock, quello in cui dalla finestra si apre un mondo e si entra nelle vite altrui. Qui nessun omicidio, ma anzi tanta emozione per questa famiglia così vitale. Uno sguardo sulle vite altrui offre sempre metri di paragone molto utili.
RispondiEliminaChe cosa strana: ho risposto e ora non c'è il commento. Forse non ho eseguito bene l’invio.
EliminaScusa: ridevo del fatto che, legata ancora alla storia delle due esaltate in chiesa, avrai pensato che io abbia preso gusto con il genere! 😆
davvero riesci a coinvolgere con ogni tuo scritto!!
RispondiEliminaqui poi hai delineato con pochi tratti ma efficaci delle belle persone..quelle che sono grandi con piccoli gesti.
mi sembrava di essere in una di quelle province americane dei film.
Pensavo: davvero si dovrebbe scrivere di cose che si conoscono. Forse si arriva di più. Osservare la realtà e darne un’interpretazione. Grazie!
EliminaRacconto o realtà, allarga il cuore! Voglia di vivere, serenità, allegria, coraggio... c'è di tutto ijn questo post.
RispondiEliminaMagnifico!
Ci sono realtà che vanno raccontate, c’è poco da fare!
EliminaRaccontate e condivise. 🙂
La vita descritta come una fotografia. Mi sono seduta assieme a te ad osservare una famiglia carica d'amore. Buona domenica!
RispondiEliminaGrazie Mariella. Buon inizio di settimana a te.
EliminaMolto bello questo racconto, una fotografia di vita vera. Capisco perché la donna sia così paziente, è abituata ad affrontare ben altre difficoltà, ma credo che affronti tutto con enorme amore, è questa la sua forza, la forza di entrambi.
RispondiEliminaE poi tre figli, gestire tutto con quella seraficità è un dono. Io osservo le apparenze, ma non mi viene difficile pensare che questa donna sia davvero così. Del resto, in una situazione del genere... tanto di cappello!
EliminaPotrei risponderti con un'altra eco, un "risveglio" simile, ma è dentro quel mio inconcluso IPDP.
RispondiEliminaLontano dai riflettori, nascosti alla nostra vista, ci sono molti padri come questo che hai scorto per un attimo. Che in sedia a rotelle ci sono finiti per una tragica fatalità o ci sono cresciuti fin dall'infanzia. Ma non per questo hanno smesso di vivere, innamorarsi, sposarsi, diventare genitori. Anzi, proprio per questo, apprezzano i momenti meglio di noi bipedi normodotati.
L'ultima volta che stavo leggendo in terrazzo, ho beccato uno strano nonno che nel prato di fronte, non ancora edificato, faceva fotografie alla biondissima e procace nipote, in posa da super modella. Eppure c'era qualcosa che non mi tornava, non so se lo sfondo fintamente campestre, o la mano del nonno che accompagnava il fondoschiena della nipote nella vicina trattoria, dopo aver terminato il set fotografico...
È vero, queste realtà esistono, forse anche peggiori. La cosa che mi ha colpito, intanto, è stata proprio la serenità di figli e moglie: è bello vivere con normalità una condizione che normale non è. Quando ho visto spuntare dall’angolo questo padre in sedia a rotelle m’è preso un colpo: non me lo aspettavo per niente, accidenti!
EliminaBeh, ma la storia del nonnetto merita un’attenzione particolare! Questa è una super eco! 😜
Mi piacciono i tuoi echi. ;-)
RispondiEliminaGrazie...zie...zie...zie...
Eliminanon è che ci voglia molto ad abbandonare quella porcheria di Caltanissetta.
RispondiEliminaNo, infatti ci ho messo pochissimo: 12 ore per smontare una casa e chiuderla per sempre, tutto sommato, non sono molte.
Eliminaeh, ma il punto non è quanto ci voglia a lasciare quella (porcheria) di caltanissetta. il punto è la resilienza necessaria per accettare quella (porcheria) di roma. città convulsa senza motivo, che si è addormentata campagna e si è risvegliata metropoli, con quartieri modernissimi e altri in cui i necrologi vengono ancora incollati ai muri delle strade.
RispondiEliminaspirito di adattamento. sì. ce ne vuole a pacchi. più di quanti se ne possano caricare su due tir provenienti dalla sicilia (o da qualsiasi altra parte del mondo). anche io sono straniero a roma e resto tale, saltando a piè pari i sacchi dell'immondizia sul marciapiede e confidando che il 913 non ci metta più di due ore a passare.
Peccato, Roma è una città meravigliosa, in mano a gente che sicuramente non sa apprezzarne il valore. E, in effetti, solo vivendoci capisci cosa non funziona o potrebbe (dovrebbe) funzionare meglio: per ora sul libro nero della mia rinascita romana ho appuntato l’immensa incuria di certe aree e l’immensa stronzaggine dei guidatori.
EliminaMarina, quando tu racconti, io riesco a vedere con i tuoi occhi. E'questa la straordinarietà della tua scrittura. E' vera quanto te e quanto il tuo animo rivolto al mondo ed alla sua bellezza.
RispondiEliminaIo a Roma non mi abituerò mai. Ci sto come una che indossa un bel vestito che non è suo. E son 20 anni... Ne abbiamo parlato. Non è tanto l'incuria, la strafottenza, la nostalgia di posti ormai lasciati e fermi nel cuore (senza alcuna evoluzione): sono le distanze. E' esattamente la maledizione delle distanze, dei tempi, degli spostamenti difficoltosi. Roma non mi apparterrà mai, io non apparterrò a Roma. Sogno ancora in posto piccolo, a dimensione d'uomo, dove poter chiamare al mattino la mia amica Marina e chiederle se le va un caffè tra dieci minuti...
Ti abbraccio, forte forte... Con tanto amore.
Carissima Irene, non che non sia contenta delle novità che ti tengono impegnata di più adesso, ma... CACCHIO, MI MANCHI. No, ma adesso ti mando un audio su wapp e ti aggiorno su un po’ di cose. Caffè virtuale, ci accontentiamo di quello per ora! 😘
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