“Che cosa mi è accaduto?” mi domandai. Non stavo affatto sognando. La mia stanza, una normale stanza per esseri umani, era sempre lì quieta fra le quattro ben note pareti. Al di sopra del tavolo, dove erano sparsi alla rinfusa i fogli tirati fuori da una carpetta con il mio ultimo racconto (facevo la scrittrice), stava appesa un’illustrazione che avevo ritagliato qualche giorno prima da una rivista e messo in una graziosa cornice dorata. Raffigurava un signore dallo sguardo serio, ma affabile, con la barba e gli occhiali; stava seduto tenendo in mano un libro aperto, che mostrava sulla copertina il disegno di una gabbianella.
Volsi lo sguardo verso la finestra, e la vista del brutto tempo (si udiva il ticchettio della pioggia sulla lamiera del davanzale) mi riempì di malinconia.
“E se dormissi ancora un po’ e cercassi di dimenticare tutto quello che sta accadendo?” pensai; ma il mio proposito era assolutamente inattuabile: ero infatti abituata a dormire sul fianco destro e nello stato in cui mi trovavo mi era impossibile assumere quella posizione. Per quanti sforzi facessi per girarmi su un lato, rotolavo ogni volta indietro supina. Ci provai almeno un centinaio di volte, tenendo gli occhi chiusi per risparmiarmi la vista di tutti quei lapilli brulicanti, e smisi soltanto allorché cominciai ad avvertire una fitta leggero, sorda, mai provata in passato.
“O mio Dio!” pensai “che attività faticosa mi sono scelta! Dovere stare piegata su una sedia a scrivere per ore e per giunta con la preoccupazione di non riuscire a concludere niente, di lasciare il foglio bianco, dopo tutto il tempo speso a cercare l’idea vincente; e devi concentrarti; e devi immedesimarti... Immedesimarmi? Ecco la fregatura. All’inferno tutto quanto!”
Sentendo un prurito nella parte alta della convessità, rotolando più su verso il capezzale per potere meglio sollevare la testa, scoprii il punto che mi solleticava: era coperto di piccoli germogli arancioni che non sapevo spiegarmi; provai a toccarlo con uno di quei tentacoli che ondulavano flosci nell’aria, ma fui costretta a rinunciarvi, perché era troppo corto per ripiegarsi sulla parte pruriginosa. Ma adesso, che fare?
Il prossimo appuntamento con il blog era per quel giorno: per arrivare a pubblicare avrei dovuto scapicollarmi giù dal letto, e poi restava ancora da riordinare le idee. E poi, se non fossi riuscita a pubblicare in tempo, una lavata di capo da parte dei miei lettori era inevitabile, perché si aspettavano di ricevere la notifica del post e questa, non arrivando, era il chiaro segnale della mia assenza. Perché non darsi per malata? La cosa però sarebbe stata estremamente sgradevole e sospetta; infatti, durante i miei cinque anni di blogging, non avevo mai fatto neanche un’assenza per malattia.
Mentre facevo molto frettolosamente tali considerazioni, sentii bussare con cautela alla porta: “Mamma” chiamò una voce (quella di mio figlio) “sono le sette meno un quarto! Non ti alzi?” Oh quella voce soave! Sentendo la mia in risposta, fui presa da terrore: era senza dubbio la mia di sempre, ma vi si mescolava un incontenibile e penoso rantolo che pareva salire dalla trachea e che nella risonanza distorceva le parole tanto da farmi sembrare una strega asmatica. Avrei voluto rispondere esaurientemente e spiegare ogni cosa ma, in quelle condizioni, mi limitai a dire: “Sì, sì, mi alzo subito.” Forse il messaggio era arrivato, perché udii mio figlio andarsene ciabattando. Ma subito dopo, ecco bussare mio marito, debolmente, con il pugno. “Marina! Marina!” gridò, “ma che succede?” E dopo una breve pausa, con voce più cupa e in tono ammonitore continuò: “Non ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa?”
Sforzandomi di togliere alla voce qualsiasi inflessione strana mediante una pronuncia che sembrasse più chiara e l’introduzione di lunghe pause, risposi: “Vengooo.”
Tentai di scendere dal letto. Il movimento che mi riuscì più agevole fu darmi una spinta laterale, in modo da rotolare giù rimbalzando sul pavimento. Non avevo fatto i conti con tutte quelle braccine coronate che ricoprivano interamente il mio corpo. Al contatto violento con la superficie dura alcune si piegarono in malo modo: il dolore che provai mi fece capire che dovevo stare attenta a distribuire bene il peso se non volevo trovarmi con qualche spuntone spezzato. Non dimenticavo di ripetermi che più utile di qualsiasi decisione avventata era una calma, calmissima riflessione.
Mossi il corpo con spinte regolari e mi attaccai alla porta come se io fossi dotata di ventose resistenti. Una si artigliò alla maniglia e la tirò giù. Finalmente l’uscio si aprì. Ero ancora impegnata nella complicata operazione di staccarmi dal battente, quando udii mio marito sbottare in un sonoro “Oh!” che parve simile a un sibilo di vento, premersi la mano contro la bocca spalancata e retrocedere lentamente, come sospinto da una forza invisibile e uniforme. I miei figli si guardarono attorno incerti, quindi si coprirono gli occhi con le mani. Allora mio marito, senza perdermi di vista nemmeno per un attimo, intimò a entrambi di tenersi ad almeno due metri di distanza, poi indietreggiò lui stesso.
“Correte a prendere le mascherine” disse “e i guanti… e l’amuchina… e il telefono: c’è da chiamare l’800 11 88 00.”
Una revisione de "La metamorfosi" di Franz Kafka adeguata ai tempi attuali e... non meno inquietante :-D
RispondiEliminaAspetto la fase 2 con qualche preoccupazione! 😂😂
EliminaAhahah
RispondiEliminaBellissimo racconto. Quindi sei tu la vera paziente uno. Anzi, sei proprio il Covid-19. E allora dicci, da quale laboratorio sei sbucata fuori?
Scherzi a parte, meno male che non l'hai fatta l'assenza per malattia, perché mi hai fatto proprio sorridere.
Adesso, però, per scrupolo, vado a disinfettarmi gli occhi e i polpastrelli. :P
Lo vedi sta quarantena dove mi ha portata? Direi che sono arrivata al capolinea! 😂
EliminaCavolo, speriamo non mi capiti! (Meglio virus o blatta? Mi sa che è una bella lotta...)
RispondiEliminaDi coronablatta, almeno, non si muore! 😁
EliminaUn po' di tempo fa ho letto un articolo di Nature che spiegava che una cosa del genere può verificarsi se ci si ostina nel praticare il Buongiornissimo Caffè.
RispondiEliminaAhahahah, hai ragione. Un effetto collaterale terribile!
Eliminaahahahahahhaha... Marinaaaaaaaaa!! No eh, mi sa che qui è arrivato il momento di prendere aria.
RispondiEliminaIo se mi dovessi metamorfizzare opterei per un'Alice Walton o simili: almeno ti potrei mandare un jet privato a prenderti e ce ne andremmo a fare colazione a totmilametri da terra :P sai come ci sentiremmo meglio in due. Un abbraccio grande grande amica mia
Yesss, Irene, sono arrivata! 🤪
EliminaMetamorfizzati, please, al più presto! 😂
🤗🤗
Tra scarafaggio e virus non so cosa scegliere, è comunque un risveglio terrificante...speriamo di risvegliarci dall'incubo 😢😉
RispondiEliminaUna cosa è certa: scarafaggio o virus che sia, non voglio fare la fine di Gregor Samsa! 😝
EliminaMa guarda che delizioso racconto! Finalmente sono riuscita a leggerlo (immagina l'inasprimento della didattica a distanza quanto possa essere inevitabile). Direi un'ottima e personalissima versione della Metamorfosi in tempo di pandemia. Un giorno rileggeremo tutti questi post e speriamo di poterci ridere su consapevoli che realmente sia tutto finito.
RispondiEliminaIo ancora mi sento un gigante covid19, un covidone prigioniero in un corpo di blogger al limite dell’esaurimento. 😁
EliminaE mica è finita! 😰
Una bella risata seppellirà tutti i brutti ricordi. Daje! 💪🏻