Sono le ore 8:00, dalla veranda di casa mia assisto al movimento di una città che oggi festeggia i Santi Apostoli Pietro e Paolo, patroni di Roma. Il rumore arriva a ondate, il transito di mezzi, lungo il tratto di strada, che riesco a vedere dal mio palazzo un po’ internato, è veloce e capisco che il semaforo è rosso quando il suono si uniforma in un borbottio di auto con il cambio in folle.
Mi sveglio sempre molto presto, al mattino, mi piace rimanere a letto giusto il tempo di ripercorrere mentalmente i sogni fatti (me li ricordo per i primi dieci minuti, poi mi rimane addosso solo la sensazione di avere una doppia vita e di non volere rinunciare a nessuna delle due). Il materasso mi respinge e io mi alzo senza trascinarmi nel sonno interrotto: ho gli occhi ben aperti, il viso riposato e non ho i segni lasciati dalle pieghe delle lenzuola, calpestate durante la notte.
In estate, trasferisco le mie attività di svago nel locale “veranda all’aperto”: leggo su una sedia a sdraio basculante e scrivo su un tavolino all’ombra di due tende da sole che sono una salvezza, nelle ore di punta. Penso sempre che qualcuno dall’Alto, per ricompensarmi del sacrificio affrontato nel venire a vivere a Roma, abbia voluto regalarmi la comodità di una casa grande con ampi balconi: la veranda, al quarto piano, con nessun ostacolo a impedire la visuale a lungo raggio, sembra la prua di una nave da crociera, soprattutto quando il vento sostituisce egregiamente l’aria del condizionatore all’interno.
Adesso sto scrivendo, con un bicchiere di tè freddo a lato, che diventerà a temperatura ambiente fra pochi minuti, la promessa di una giornata caldo umida (il cielo ha il colore bianco sporco delle pareti invecchiate), il libro in lettura sul davanzale e l’iPad che riflette la luce alle mie spalle.
Sono qua e penso.
Vedendo la mia sagoma disegnata sul monitor, mi ritorna in mente un signore che ieri pomeriggio viaggiava nello stesso vagone della metro in cui mi trovavo io, magro, visibilmente accaldato, forse per via della giacca pesante indossata su un jeans liso; la cintura stringeva poco e gli lasciava il pantalone cascante sulla vita; aveva le scarpe consunte, la camicia abbottonata fino al collo, la mascherina aderiva alla sua bocca come una penitenza. Eravamo entrambi in piedi, io cercavo di stare in equilibrio a gambe leggermente divaricate, per evitare di tenermi ai sostegni in metallo, lui era appoggiato alle porte del treno, con le braccia allungate davanti e le mani che stringevano, all’altezza delle ginocchia, uno zainetto di tela sgonfio. Lo osservavo, perché la distanza di sicurezza ai limiti dell’ammissibilità ci aveva messi l’una di fronte all’altro e per evitare di guardarlo con innocua insistenza avrei dovuto cambiare posizione. I capelli rasati, una cicatrice sulla tempia destra, lo sguardo spinoso, avevano da subito plasmato il mio preconcetto su di lui. Sensazioni dovute solo all’apparenza, come nella maggior parte dei casi in cui giudicare n0n comporta sforzi.
Mentre la corsa accorciava il tempo dell’arrivo alla mia fermata, una voce cantilenante, ma sostenuta, ripeteva una formula sentita altre volte:
“Per favore, sono una ragazza madre, con una bambina piccola, sono senza casa, per favore, un aiuto, una moneta per comprare il latte o qualcosa da mangiare per questa bambina. Che Dio vi aiuti...”
Una donna con una lunga treccia di capelli nerissimi, una gonna che le lasciava scoperte solo le dita dei piedi dentro le ciabatte, sfilava lenta in mezzo ai passeggeri, tenendo in una mano un bicchiere di carta, per raccogliere la bontà della gente e, nell’altra, quella di una bambina senza sorriso, con la capacità, che appartiene solo alla purezza dell’infanzia, di fare un buco nel cuore tramite la potenza dello sguardo.
La disattenzione delle persone era inattaccabile: immerse nelle loro distrazioni, ignoravano quel quadro di miseria, abituate a non aprire borse e borsellini di fronte al disagio, che congela lo slancio verso la compassione.
La donna con la bambina mi sono passate accanto: ero in una posizione instabile e non ho frugato nelle tasche per dimostrare la mia parte di umanità, non mi sono nemmeno preoccupata di mettermi in sicurezza per compiere l’opera di bene. Semmai, mi sono imposta l’indifferenza per non sentirmi troppo in colpa e poi ho guardato, spinta quasi da un automatismo, il signore appoggiato alle porte della metro: scuoteva la testa, i suoi occhi non seguivano la traiettoria della questuante, erano bassi, piantati sullo zainetto che gli dondolava in mezzo alle gambe. Lo ha aperto, barcollando sul posto, perché le mani erano impegnate a slacciare il fiocco del cordino mentre il treno in corsa imboccava una curva; ha tirato fuori un incarto alimentare che, in tutta evidenza, sembrava contenere un panino imbottito, ha mollato lo zaino in un angolo e si è mosso verso la mendicante, la cui nenia continuava a generare indifferenza. Ho sentito solo: “grazie, grazie. Il Signore ti ripaghi”, poi l’uomo ha preso la sacca da terra, mi ha dato le spalle e quando la metro si è fermata, è sceso, unendosi agli sconosciuti che imboccavano l’uscita. La sua giacca lo rendeva riconoscibile in mezzo alla moltitudine di estranei.
Quando le porte si sono richiuse, la mia ombra si è specchiata sui vetri dove fino allora il tizio era stato appoggiato: al suo posto c’era la mia figura senza identità. Come quella dei tanti rimasti a riempirsi di pregiudizi sul prossimo.
Punto primo: lavorare in balcone è la mia salvezza, quindi so di che cosa parli.
RispondiEliminaPunto secondo: ottima narrazione, potrebbe essere lo spunto di un noir metropolitano!
😁 prima o poi mi misurerò con un noir!
EliminaTi manca tanto così --> <--
EliminaTra le tue righe c'è il dono di una narrazione fluida, che vuole attenzionarti solo col fascino descrittivo, senza sciocchi escamotages da blog (maiuscole, grassetti, colori, sottolineature). Offri quadri inediti allo sguardo comune (borbottio di auto con il cambio in folle), e immagini che rimangono a pelle, a incidere sulla nostra vaghezza percettiva (al suo posto c’era la mia figura senza identità) Una capacità di interagire con le nostre abitudini ed in nostri pregiudizi, quelli che sforniamo per default, senza neanche accorgercene. Grazie davvero.
RispondiEliminaGrazie a te, Franco!
EliminaIl pregiudizio è proprio ingestibile: quando pensi di poterlo governare, è lì che ti serpeggia dentro e tu nemmeno lo sai. Di default: dici bene. Quello che mi è successo, durante la corsa in metro, è l’essermi accorta di avere dato un giudizio spiccio su uno sconosciuto e di avere pensato che non valesse la pena aiutare una zingara. Tradita due volte dalla mia presunzione di essere meglio di entrambi. Un’autoaccusa, che sentivo il bisogno di condividere.
Magnifico.
RispondiEliminaGrazie, Marco!
EliminaConcordo anch'io con i commenti che mi precedono: bellissima narrazione, fluida, sobria e capace di incidere. Ho respirato con te l'atmosfera della tua veranda all'aperto e poi mi sono immersa nel successivo ricordo che ci regala un clima e uno spessore diversi, insieme a squarci di attualità che scavano e fanno pensare.
RispondiEliminaGrazie di cuore, Marina!
Qualche volta mi capita di scrivere con questo scopo: raccontare qualcosa della quotidianità, per dividere con gli altri le mie suggestioni e ciò che ne ho tratto. Grazie. Annamaria, per avere partecipato attivamente alla mia narrazione.
EliminaIo mi sarei comportato come te. Ormai sono diventato scettico, immagino la questuante con la bimba che quando scende alla fermata butta il panino in un cassonetto e mentalmente maledice l'uomo che, invece di darle valuta pregiata, si è disfatto di un inutile spuntino che non gli andava più.
RispondiEliminaSono d'accordo con Adriano.
EliminaNon mi fido dei mendicanti e più volte mi è capitato di offrirgli del cibo, ma di veder rifiutata la mia proposta.
Non vorrei fare di tutta l'erba un fascio, ma io non ci sto.
@Ariano A lezione da Mafalda! 😂 😂 Guarda, forse sugli zingari il mio scetticismo è simile, ma sull’uomo che si libera di un inutile spuntino no, dai! Il suo gesto mi ha davvero commosso, l’ho pensato di grande generosità. :)
Elimina@Claudia Qui, però, volevo attirare l’attenzione non tanto sulle azioni della mendicante, quanto sul fatto che tante volte costruiamo sulla gente dei pregiudizi che non sempre abbiamo la possibilità di sfatare. E io sono stata felice, invece, di demolire il mio su quel tizio, che per me poteva tranquillamente essere un killer dall’aspetto torvo che aveva, non certo uno che si priva dell’unica cosa che ha nello zaino per aiutare una donna che chiede l’elemosina e tutti ignorano.
Hai un modo di scrivere molto coinvolgente. Leggendo il tuo racconto mi sono immersa completamente tra le righe che scorrevano fluide, semplici, senza inutili ricerche di esagerazioni per colpire il lettore. Ti faccio i miei complimenti.
RispondiEliminaGrazie!😊
EliminaBellissima la tua narrazione, tristissima la tua riflessione sul pregiudizio. Purtroppo hai ragione
RispondiEliminaLe riflessioni, spesso, quando passano su carta diventano sfoghi. Raccontandole mi sembra quasi di potere alleggerire la coscienza.
EliminaGrazie.
Narratrice nata, sempre detto. Ti invidio anche l'eleganza, che è un tuo tratto distintivo. Hai colto un milione di tratti umani in poche righe. Bravissima, "machetelodicoafare", aggiungerebbe Al pacino leggendo il tuo pezzo.
RispondiEliminaBello che tu sia qui!
EliminaGrazie! E poi, come le dici tu le cose...! 🤗
"machetelodicoafare" è da Donnie Brasco, vero? ;-)
EliminaMarina, è un piacere anche per me. Sono contento di trovarti in forma. Mi piace sempre leggerti.
EliminaSì, Andrea. Grande film.
Elimina@Max 😘
EliminaChe bello questo post, davvero scritto bene con la tua scrittura fluida ed elegante. Mi sono commossa e mi è sembrato proprio di vederlo l’uomo senza pregiudizi che donava il panino alla zingara. Purtroppo come te e Ariano sono spesso vittima del pregiudizio, però anche a me spacca il cuore lo sguardo dei bambini, quello non credo proprio sia una finzione.
RispondiEliminaQualche volta mi arrabbio proprio per questo motivo: penso che ci sia chi approfitta dell’innocenza dei bambini e sfrutta la loro capacità di muovere a compassione per altri scopi. Questo è il mio pregiudizio principale, purtroppo!
EliminaÈ solo che la ripetitività di una "scrittura fluida" mi ha fatto incorrere ad un altro dolore di parto dando vita ad un nuovo pregiudizio!?
RispondiEliminaLeggiamo per imboccare la via dei complimenti o cerchiamo davvero di capire il perché di questa indifferenza ?Leggendo sono stata toccata profondamente da questa realtà e sono ancora rimasta su quel bus, ma poi so che non appena scenderò mi ritroverò nella stessa situazione in un nuovo scompartimento!
Grazie e buona serata a te Marina e a tutti i tuoi lettori
L
Ciao, grazie per avere lasciato qui il tuo pensiero. Il perché dell’indifferenza: bel punto di domanda. Si va dalla risposta più scontata: perché non abbiamo fiducia, siamo diffidenti, a quella più scomoda: l’egoismo è una malattia, spesso asintomatica, dalla quale non si guarisce.
EliminaImmaginando te, su quella veranda accaldata, al quarto piano, intenta a leggere e scrivere e cercare non dico refrigerio ma almeno un po' di ristoro, mi viene solo una domanda. Ma le zanzare di Roma dove le avete spedite?! Ci posso mandare anche le mie? No, perché, appena metto il naso fuori, sono velocissime a farmi il tampone, salvo che i risultati non me li inviano mai...
RispondiEliminaTornando alla serietà. Sono stata pendolare del bus cittadino (prima che comparisse il tram, di cui abbiamo una sola linea) per molti anni ed è vero che il pre-giudizio sull'abbigliamento e l'atteggiamento è innato, anche quando lavoriamo per non ascoltarlo. Più di qualche volta ho visto persone che incutevano un po' di timore essere per esempio le uniche a cedere il posto a sedere a un anziano in difficoltà. D'altro canto, ho sviluppato una certa diffidenza per gli zingari perché proprio in un bus una di queste è stata sorpresa con la mano dentro la borsa di un'amica. E' successo il putiferio. L'amica le ha preso la mano gridando "cosa fai? perché tocchi la mia borsa?" e l'altra ha iniziato a inveire con "razzista! razzista!", l'autista immerso nel traffico non poteva nemmeno fermarsi, ma appena l'ha fatto, la zingara è scappata fuori e non si è più vista.
Ma a dirla tutta l'esperienza peggiore l'ho vissuta in stazione centrale a Milano, nelle gallerie verso la metro, nel tabacchino dove ero in fila per acquistare i biglietti. Un ragazzo, vestito bene, tranquillo nei modi, ha spudoratamente saltato la fila, bella lunga. Un signore sulla cinquantina, ben vestito anche questo, se n'è accorto e ha iniziato ad offenderlo e spintonarlo. L'altro all'inizio non reagiva, poi ha risposto con un "lasciami stare". Il signore l'ha preso a pugni, con la moglie che cercava di trattenerlo. Credo abbia preso o il labbro o il naso del ragazzo, che sanguinava e c'era sangue per terra. La moglie ha portato via il marito nella paura generale, se la sono proprio svignata. Mentre le tabaccaie hanno chiamato la Polfer. Il ragazzo stava male e dalle risposte agli agenti si capiva che aveva un deficit cognitivo, minimale, ma ce l'aveva. Non so come sia andata a finire - gli agenti parlavano di visionare le telecamere per procedere a denuncia - ma quel signore era davanti a me e mai e poi mai avrei pensato fosse capace di un'azione del genere. Per una cavolo di fila e per due biglietti della metro!
Il pregiudizio comunque non ci salva, ecco.
Rilancio con due episodi di vita vissuta: la zingara che, a Firenze, ha tentato di portarsi via il passeggino con mio figlio di due anni dentro. E ti ho detto tutto. E un tizio, apparentemente tranquillo, inimmaginabilmente fuori di testa, che si è avventato con un crick contro un autista che aveva, a suo dire, combinato qualcosa ai suoi danni. Ma qui, i romani alla guida ce l’hanno insita la follia!
EliminaIn questo caso, che ho raccontato, mi ha molto sorpreso il gesto dell’uomo che avrei visto bene nei panni di un naziskin più che in quelli del buon samaritano. Sì, accidenti al facile pregiudizio!
Parliamo di cose frivole, piuttosto: zanzare? Eh, ma io vivo in un comprensorio che paga ogni mese una ditta per la disinfestazione degli ambienti esterni! 😛
Sono d'accordo sul fatto che siamo pieni di pregiudizi. Infatti ti svelo il vero finale di questo racconto.
RispondiEliminaLa zingara e la bambina non erano ciò che sembravano. Erano state assunte per interpretare quei ruoli dall'autore del programma. Entrate nel loro camerino, si tolsero i microfoni e le microcamere che avevano addosso, e che facevano il paio con le molte altre che gli addetti del game show avevano piazzato di nascosto sul convoglio.
Incredibilmente questa volta avevano un vincitore, dopo settimane di riprese e innumerevoli persone che avevano distolto lo sguardo. L'uomo che aveva dato un panino alle star del programma aveva vinto.
Chissà come sarebbe stato contento quando l'avrebbe saputo e soprattutto gli avessero detto del suo premio.
Un milione.
Un milione ti può cambiare la vita, specie se eri messo male come dava l'idea di essere quel tipo.
Già, un milione di like su Facebook gli avrebbe davvero cambiato la vita...
Il miglior modo per sfruttare gli spunti raccolti nella quotidianità: trasformarli in un racconto. 😉
EliminaUna pennellata di vita quotidiana, un déjà vu narrato con il tuo piacevolissimo ed efficace "fare". :)
RispondiEliminaOgni tanto ritorna la mia vocazione alla quotidianità da raccontare. Grazie! ☺️
Elimina