martedì 27 giugno 2023

Suicidio e letteratura


Amare la vita dovrebbe essere scontato. Ma non lo è per tutti. C’è chi la vita la sopporta, chi arranca, chi la disprezza, chi non la capisce, chi non se ne sente degno, chi non le è grato: non per tutti è un dono. Quando il mito della speranza, che è l’ultima a morire, viene soppiantata dalla forza delle paure, dello sconforto, dell’incapacità di trovare appigli, allora la vita diventa un peso, una gabbia, peggio una punizione che non conosce vie d’uscita. La depressione è la manifestazione di questa prigionia mentale, che scivola verso il disagio psicofisico e, in molti casi, approda a una soluzione definitiva: il suicidio.

Non ho le conoscenze né le competenze per affrontare un discorso scientifico su sintomi, cause e cura della patologia psichiatrica comunemente chiamata "depressione" e non mi avventuro nemmeno nel campo della scelta etica del suicidio come panacea per ogni male terreno. Pensavo ai diversi casi, in letteratura, di scrittori soggiogati dal male oscuro e - non dovrei quasi dirlo - sono affascinata dalle loro vite, dal cosa sia accaduto e dal perché a un certo punto in essi sia scattata quella molla che li ha fatti scivolare lungo la china della malattia, accompagnandoli per mano verso la salvifica morte. 

Qualche anno fa lessi un libro di Andrea Pomella, scrittore contemporaneo, che nel memoir “L’uomo che trema” racconta il suo personale crollo emotivo e tutte le  manifestazioni a esso collegate. Si capisce, leggendo le pagine del libro, quale dramma interiore abbia vissuto da soggetto depresso: immedesimarsi nella sua condizione è stato un viaggio pesante dentro l’immane sofferenza di una creatura arresa, che in ogni cosa vede una completa, farsesca mancanza di senso e usa espressioni come afa repellente, silenzio da disastro nucleare, filo di metallo arrugginito, morte bianca, per descrivere l’attività mentale azzerata. La persona affetta da depressione vede la vita che si assottiglia, niente più attese, solo capitolazioni, giorni che passano, salite che si fanno via via più ripide

Pomella, oggi, è uno scrittore di cinquant’anni, che ha superato il male di vivere, ma tanti non ci sono riusciti e si sono lasciati sopraffare dall’infelicità: la somma di infiniti giorni, di infiniti episodi, di infinite insignificanze, li ha portati al suicidio.


David Foster Wallace è uno che non ce l’ha fatta: l’autore di "Infinite Jest", una delle storie più straordinarie in cui mi sia mai imbattuta in anni e anni di letture (ne ho parlato in questo post), ha scelto di chiudere tutte le porte alla speranza di venire fuori dalla depressione e con un cappio attorno al collo, il 12 settembre 2008, ha salutato la vita che stava omaggiando il suo indiscusso talento. La descrizione che Wallace fa della “depressione psicotica” per bocca di Kate Gompert, uno dei personaggi dello scherzo infinito, è il suo personale, disperato, grido contro l’invisibile agonia della Cosa (ho trascritto l’intero brano in una delle mie Citazioni estive). Un’istanza suicida è anche la premessa di un racconto, “Caro vecchio neon”, contenuto nella raccolta “Oblio” del 2004, in cui un uomo, che si definisce un autentico impostore e per questo decide di andare in psicanalisi, racconta come arrivi al proprio suicidio, rivolgendosi al lettore con un “tu” quasi affettuoso. È come se l’idea di farla finita avesse accompagnato (per non dire assillato) Wallace per tutta la vita.

E che dire del suicidio di alcuni dei più noti scrittori classici? 

Ernest Hemingway ha premuto il grilletto del suo fucile perché stremato da anni di malattie, depressione, sregolatezze e alcolismo, mentre ci consegnava pagine di grande letteratura; Virginia Woolf ha affidato alle tasche piene di pietre il proprio destino di morte, pensando che lasciarsi annegare nelle acque di un fiume fosse la cosa migliore da fare (come scrisse nel biglietto lasciato al marito), per non ricadere nel tormentato, insopportabile, suo malessere interiore. E Cesare Pavese ha trasformato il sonno profondo in sonno eterno, ingerendo una quantità eccessiva di sonnifero. Ho letto “Lessico famigliare” di Natalia Ginsburg, sua amica e collega e il ritratto che ne fa la scrittrice descrive una persona schiva, incline alla malinconia, precisa, esigente: “aveva preparato e calcolato le circostanze che riguardavano la sua morte come uno che prepara e predispone il corso d’una passeggiata o d’una serata.” Quasi fosse lo sbocco naturale di giornate in cui il dolore di vivere ha il sopravvento su tutto.


Fa impressione pensare che sto parlando di scrittori e scrittrici che hanno raggiunto la fama, scrittori e scrittrici il cui successo non è riuscito ad alleviare i disagi psichici patiti come ostacoli insormontabili: adesso noi leggiamo le loro opere, diventate dei “classici” di letteratura, celebriamo anniversari importanti, dedichiamo agli autori e alle autrici che hanno raggiunto il massimo riconoscimento iniziative pregevoli, con studi e approfondimenti di spessore (lo scorso febbraio ho seguito in rete un incontro letterario in memoria di Sylvia Plath, poetessa simbolo di ribellione femminile contro la cultura patriarcale, anch’essa morta suicida in quello stesso giorno di sessant’anni fa e, recentemente, ho partecipato al “Dallowday”, in onore di Virginia Woolf), ma mi chiedo quanto conti tutto questo di fronte all’infelicità che non dà scampo. C’è una premeditazione della morte che è folle, ma tanto coraggio nell’azione che ne consegue, a conferma di quanto una condizione dell’anima renda più facile rinunciare per sempre alla vita piuttosto che tentare di sopportarne il peso.


La caduta dei grandi scrittori nel baratro della depressione su di me ha avuto un impatto stimolante: ha amplificato la mia curiosità verso le loro esistenze problematiche, le loro sensibilità lacerate e di conseguenza verso le loro opere. Nella poesia “Orlo”, composta poco prima di suicidarsi (quanta folle lucidità ci vuole per infilare la testa dentro un forno!) e letta durante quell’incontro di febbraio cui ho fatto cenno, Sylvia Plath scrive: “i suoi nudi piedi sembran dire: abbiamo tanto camminato, è finita”.


Quanto lungo sia stato il cammino degli scrittori citati lo racconta la storia, ciò che non può raccontare è tutto il bello che si sono persi dopo quella parola: “fine”. 



24 commenti:

  1. È qualcosa di molto triste e stimolante allo stesso tempo, difficile da parlarne ma anche impossibile da evitare!

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    1. Il binomio depressione/suicidio è bruttissimo, che poi in letteratura abbia contribuito a creare dei miti è un modo per non pensare a quanto sia triste

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  2. Dinamiche che forse vanno anche oltre la depressione scientificamente catalogata. Chissà le infinite variabili che catturano la mente fino al gesto irreversibile. E non so neanche quali confini - e se esistono - delimitino la follia dal coraggio. Magari oggi uno ne parla come sensazione, ipotesi, follia. Domani si getta nel vuoto. Inciderà un volo più basso di cinciallegra, uno stridio fastidioso di vetro, una sola telefonata a far cambiare di programma?

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    1. Entrare nella mente di chi fa scelte estreme è sempre difficile, direi impossibile: non riusciremmo mai a penetrare a fondo l'animo di chi ha le idee così chiare che pensare che chissà cosa potrebbe rallentare , impedire o estinguere il proposito farebbe difetto

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  3. Letteratura e morte come binomio dello scrittore suicida, un tema che anche a me è molto caro. Mi ha commossa il suicidio della Woolf, sarà che ne feci una rappresentazione nello spettacolo curato una decina di anni fa, con la scena del suo suicidio preceduta da sassi infilati nelle tasche del cappotto, sarà in effetti anche quella lettera così carica di significati, e soprattutto dell'inevitabile che avanza. Altri due suicidi eccellenti sono quelli di Mishima e di Primo Levi (quest'ultimo non del tutto identificato come tale ma fortemente probabile). Yukio Mishima ne fece proprio un rituale spettacolare, raccapricciante come possono esserlo tanti passaggi del solo suo libro che ho letto, Confessioni di una maschera. Quella certezza inevitabile della fine della vita come liberazione ci lascia interdetti, perché non riusciamo a cogliere nella morte proprio quel senso di liberazione. Il coraggio di un gesto simile invece svela tutto. È tristissimo, e fa parte di tutto il loro percorso umano.

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    1. Sì, il suicidio di Mishima è stato veramente "parabolico": ho letto due suoi libri e, devo dire, in gioventù l'ho amato molto. La cosa che mi affascina è la capacità di queste menti infelici di partorire opere dove emerge direttamente o meno tutto il loro disagio; hanno usato la scrittura come valvola di sfogo, come custodia di latenti pensieri, ma purtroppo scrivere tanto e magnificamente non li ha "salvati". A parte che diciamo sempre che per scrivere a certi livelli devi avere qualcosa da raccontare che in qualche modo ti appartenga: le complicazioni nella vita della Woolf, la guerra di Hemingway, anche solo l'ossessione di Wallace per il tennis,... quanto avrebbero potuto ancora raccontarci di bello e unico!

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  4. Anche io provo un particolare interesse per la vita degli artisti che, nonostante il benessere materiale, sono stati terribilmente infelici. Non solo scrittori, ma anche cantanti, registi, attori e persone comuni che ho conosciuto. Credo che la loro sensibilità, la loro capacità di sentire tutto sulla loro pelle, alla lunga sia stato uno svantaggio. Mi viene in mente un passo del libro "Il Miglio Verde" di S.King:

    "(Sono) Stanco di tutto il dolore che io sento, ascolto nel mondo ogni giorno, ce n’è troppo per me.
    È come avere pezzi di vetro conficcati in testa, sempre, continuamente.
    Lo capisci questo?"

    Credo che la sensazione che si prova sia più o meno questa. Se poi si perde la speranza... non resta più nulla. :-(

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    1. La speranza è la vera ancora di salvezza, senza la quale anche un piccolo ostacolo diventa montagna. Lo ricordo il film "Il miglio verde" e, in effetti, possedere l'ultrasensibilità di provare un insopportabile dolore interiore non dev'essere un gran cosa, soprattutto se accompagnata a una fragilità che diventa malattia inguaribile, anzi guaribile, ma solo con la morte.

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  5. Anch'io provo un interesse particolare per l'argomento (pubblicai un post sul mio blog quando ancora scrivevo di letteratura e non di fumetti) per ragioni in parte personali, diciamo così.
    Il successo letterario in effetti non è la cura, allo stesso modo in cui non lo è quello musicale (penso ai tanti cantanti che hanno ceduto al male oscuro) come non lo è neppure la ricchezza, visto che persino persone molto benestanti non sono riuscite a superare una grave crisi depressiva.
    Massimiliano Parente, che è abbastanza antipatico ma una certa intelligenza ce l'ha nel comprendere l'animo umano, in un suo tweet diceva una cosa tipo: se vi pare che la vita sia inutile, che niente abbia un senso, che le parole degli altri non servano a nulla, non siete depressi: avete solo una visione molto lucida della vita.
    Ecco, diciamo che una persona particolarmente intelligente e con un'elevata sensibilità può contemporaneamente toccare il picco di creare un'opera letteraria (o musicale, o artistica) celestiale, ma anche cadere nel fondo del baratro.

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    1. Non male l'interpretazione di Parente (sta molto antipatico pure a me): se la vita fosse solo un giardino fiorito, sarebbe già il Paradiso sulla terra, ma sappiamo bene che la vita è la summa di tante situazioni, tanti momenti, è una lunga traversata oceanica durante la quale puoi imbatterti in burrasche superabili solo con la forza e gli strumenti adatti. Qualcuno trova la sua forza nella scrittura (nell'arte, nella musica), per qualcun altro non è sufficiente: peccato riscontrare che proprio questi soggetti, alla fine, lasciano tracce indelebili di sé nella storia e non possono goderne.

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  6. Penso anch'io che la grande sensibilità di una persona - e quella di un artista in modo particolare - possa avere due facce giocando ruoli opposti, consentendo da un lato di creare opere splendide ma provocando talora anche un baratro di depressione. Credo che dipenda proprio da quel sentire tutto sulla propria pelle, come è stato già detto. Ed evidentemente, il fatto che la scrittura sia di per sè terapeutica, oltre un certo limite non è più valido.
    Argomento molto interessante, Marina, grazie!

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    1. La verità è, cara Annamaria, che si potrebbero dire molte cose a riguardo e invece, di fronte a tanta pervicacia nel volere sfuggire alla vita, non si rimane che inermi, quasi senza giudizi, perché è impossibile entrare nella mente di persone che fanno simili scelte, capirne sino in fondo le ragioni, appropriarsi di una sensibilità che non può che appartenere soltanto a loro.

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  7. La mente umana ha capacità straordinarie di cui ancora conosciamo poco o nulla. Ma è pur sempre qualcosa di fisico e come qualsiasi altro organo anche il cervello può funzionare male, provocare dolore, rompersi. Il lato peggiore è che alcuni disturbi si innescano perché la mente si ritrova in schemi pericolosi, vortici di pensiero da cui è fatica uscirne da soli. Quegli stessi vortici fanno vedere il mondo con una lucidità incredibile, il picco di creatività che riconosciamo a queste persone, in diversi campi artistici. Ma mi spaventa terribilmente l'idea e non riesco a leggere le loro biografie. Se è vero che comunque si muore soli, loro sono morti molto più in solitudine di tutti gli altri.

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    1. Sicuramente. E pensavo anche che noi che amiamo scrivere storie e vorremmo diventare scrittori, magari avere successo, guardiamo se non proprio con invidia, con ammirazione ciò che il tempo ha regalato a queste persone: la fama, meglio, l'immortalità, quando forse loro avrebbero voluto avere le nostre vite, pure banali o in continua crescita (professionale, artistica), pur di recuperare quella serenità, quella "normalità" che gli avrebbe consentito di costruirsi un futuro diverso (che poi chissà se sarebbero stati i miti che sono diventati!)

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  8. Sai che ho pensato spesso a tanti grandi autori e artisti ,tra i quali quelli da te citati,che hanno in comune lo stesso triste epilogo?Io vedo così tanta bellezza in queste opere ,in quegli scritti e se è vero ,attenendomi alla bella citazione di Dostoevskij che la bellezza salverà il mondo,io non credo lo faccia a discapito di altri per beneficiare tramandando eredità
    verso le nuove generazioni.Dal nostro anzi dovrei dire più giustamente dal vostro :)potete custodire e deliziarci con tale bellezza aiutando anche i lettori come me ,a cui semplificate concetti con ulteriore bellezza del saper scriverne e descriverne.

    Chissà se questi grandi sapevano di esserlo,e se questo non è stato sufficiente ad evitare di commettere un simile gesto pur amando la scritta,di vuoto e di mancanza di amore si può anche morire...anche se l'Amore rinasce misteriosamente.


    L.

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    1. Forse essere grandi non basta, come il riconoscimento di essere geni (nel caso di Foster Wallace) non aiuta l'amor proprio a sopravvivere all'odio verso se stessi e la vita. Chissà! Solo il buon Dio può capire la natura dei loro gesti estremi e giustificarli. Pavese, per esempio, a proposito di quello che dici sull'amore che rinasce, non ha saputo fare rifiorire il suo e si è caricato sulle spalle la delusione per un amore importante finito senza riuscire a reggerne il peso :(

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    2. Marina la prima parte del tuo commento riprende le mie stesse riflessioni e quelle inequivocabili di Filippo più giù... e in un certo senso è propio come scriveva Pavese:

      "Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi".

      E a proposito di quello che dico sull'amore che rinasce anche questo su è un esempio in cui io ne vedo ,e nonostante quella condizione di sofferenza spirituale dello stesso Pavese e a quell'epilogo preannunciato, approfondendone ,grazie anche al consiglio di una cara persona ,ho percepito nelle sue stesse parole la morte di un corpo ma non quella dell'Anima.Non saprei spiegarlo se non attraverso le sue stesse parole ...ne metto degli esempi


      *C’è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è miseria.

      La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.*

      Grazie e buona settimana a te e a tutti coloro che ti seguono.


      L.

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    3. Contributi interessanti, che accrescono il mio interesse verso Pavese, aggiungendo sfaccettature alla sua complessa personalità. Grazie.

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  9. Come ho accennato nel mio ultimo post, da adolescente ho adorato Cesare Pavese, la folgorazione è avvenuta proprio leggendo “Il mestiere di vivere” il suo dario postumo, dopo ho letto anche tutti i suoi libri, quasi a voler capire quale fosse il tormento che lo attanagliava e che lo aveva portato al suicidio. In realtà la risposta l’ho avuta di recente leggendo la sua biografia su Wikipedia: un’infanzia difficile con la prematura morte del padre e una madre che, provata dalla morte di due figli piccoli prima di lui, lo affidò piccolissimo a una balia. Il seme della depressione secondo me ha trovato subito un fertile terreno. Era di famiglia agiata e quindi studiò e si affermò come scrittore e saggista ma non trovò mai l’amore che cercava, ebbe una storia importante, che finì molto male, con un’attrice americana (ma la storia d’amore più famosa è quella citata da De Gregori nel suo “Alice non lo sa”). Non mi dilungo di più su di lui, ma anche Virginia Woolf non ebbe una vita facile (anche lei restò orfana di madre a 13 anni e poi ci fu una storia di abusi in famiglia). Certe difficoltà o gravi carenze affettive, soprattutto se partono dall’infanzia, possono segnare più di altre e predisporre alla depressione, nonostante l’affermazione e il successo.

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    1. Devo recuperare il tuo ultimo post, ma anche in altri articoli tu hai parlato della tua passione per Pavese. Io l'ho scoperto di recente e lo so che non mi fa onore, ma non sai quanti classici mi sono lasciata indietro e ora ho intenzione di recuperare. Ho letto "La luna e i falò" e l'ho trovato bellissimo, tanto da volere leggere ancora altro. Conoscevo la biografia di Pavese, anche grazie agli studi classici fatti, come conoscevo quella di Virginia Woolf, senza avere mai approfondito la sua poetica narrativa. Al liceo lessi "Mrs Dalloway", ma non ricordavo nulla: ripreso da poco mi si è aperto un altro mondo che stavo trascurando. E niente, i classici vincono sempre (per adesso, almeno, sono in questa modalità di lettura). Comunque è indubbio che un'infanzia sbagliata possa smuovere nell'animo qualcosa di molto profondo, che finisce per avere delle ripercussioni lungo tutto l'arco della vita. Una vita così può essere fonte di grande ispirazione, ma a che prezzo?

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  10. Secondo me non c'è legame tra scrittura e suicidio. Tanti non scrittori si sono suicidati, tanti scrittori non si sono suicidati. Posso capire che il fallimento porti alla depressione e questa al suicidio, ma hai citato scrittori di successo. Credo che ciò insegni che non sono i risultati che conseguiamo a farci felici. E che il male di vivere può colpire anche persone di talento.

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    1. Nessun legame diretto, certo. Non è automatico che uno scrittore depresso si suicidi (Pomella ne è un esempio): la depressione è una patologia terribile, che non guarda al successo, non guarda alla ricchezza, il post allude anche a questo. Ognuno sa qual è il segreto della propria felicità, ma c'è chi fa fatica a trovarlo o non ci riesce mai.

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