domenica 9 febbraio 2020

L’eco della domenica


Ieri stavo cercando un testo nella mia libreria e, scorrendo la fila di volumi del ripiano destinato alla saggistica, il dito si è soffermato sul dorso di un manuale di Antonio Cassese, “I diritti umani nel mondo contemporaneo”. Sono stata subito investita da un ricordo che evaporava ancora dalle pagine sottolineate, ingiallite dal tempo, che d’istinto ho preso a sfogliare. Allora sono scesa in garage per recuperare una vecchia agenda, che contiene uno sfogo riferito a un momento della mia vita collegato in qualche modo proprio a quel libro.

Così, l’eco di oggi risale agli anni post laurea, esattamente al giorno in cui portai con me il diario sotto un albero, in campagna, per smaltire quello che tutt’ora considero il mio più grande rimpianto. 

*****

“...perché uno si illude di non avere bisogno di dare spiegazioni, che sia sufficiente mostrare un’esigenza, ma invece devi anche farla capire quell’esigenza, la devi motivare, devi farne sentire il peso, altrimenti è solo una blanda richiesta, un proposito come tanti che può essere facilmente smontato. Le ragioni dei grandi sono sempre più valide e il ruolo di figli impone una sottomissione che poi addolciscono chiamandola “ascolto”. Ascolta il consiglio, Marina, ascolta chi ha più esperienza di te, ascolta chi ci è già passato e, a furia di ascoltare, mi sono trovata a mettere il catenaccio ai miei desideri, perché la ribellione è un gioco in cui perdo sempre e perché ho quel bastardo senso di responsabilità e rispetto per i miei che mi ha costruito la tomba attorno anziché farmi sentire fiera di essere una figlia modello…”

Seduta su una pietra larga, sotto un Pistacchio, scrivevo questo e mi bruciavano i polsi, tanta era la foga con cui pressavo la penna sull’agenda: le parole avevano preso la rincorsa, capitombolavano sulla pagina bianca senza badare a dove andavano a schiantarsi, qualcuna talmente pesante da bucare il foglio. Tracciavo solchi con inchiostro avvelenato e ingoiavo la bile con gli occhi carichi di lacrime trattenute. Ho sempre fatto questo: seppellire la rabbia sotto quintali di rassegnazione. 

Volevo farlo quel corso di specializzazione, ci tenevo, ma forse non ero stata abbastanza brava a dimostrare quanto. Vantare l’Oscar per la migliore recitazione non mi è mai servito: i sogni si realizzano senza indossare maschere.
Sono testarda e sono orgogliosa: il primo manuale di diritto che mi sono messa in mano aveva una copertina rossa che m’impallava gli occhi e l’ho ingoiato per tre mesi come lo sciroppo antibiotico che, da bambina, mi stimolava i conati di vomito. I buoni voti agli esami mi hanno abituato a uno studio che non volevo per me, così mi sono laureata a schiena dritta per dimostrare a mio padre, soprattutto a lui, che ero stata in grado di realizzare il suo desiderio, anche se non era il mio.
Poi, con il titolo suggellato da una stretta di mano e un mazzo di fiori, ho cominciato a guardarmi attorno per capire cosa volessi fare nella vita: fra le poche materie apprezzate del mio corso di studi c'era il Diritto Internazionale e quando, per la Croce Rossa Italiana, divenni “Diffusore di Diritto Internazionale Umanitario” immaginai possibile il mio futuro proprio in un settore del genere.

La memoria, quando vuole rimuovere una delusione importante, cancella  tutto o quasi, ma io, quel giorno, me lo ricordo ancora.

Portai a casa la notizia di un concorso per l’accesso a una scuola di specializzazione di Diritto Internazionale Umanitario e i miei genitori mi lasciarono tentare la selezione. Studiai finalmente con il gusto di approfondire una materia che sentivo mia: le Convenzioni di Ginevra, la Carta Universale dei Diritti dell’Uomo, il libro dell’esperto in Diritto Internazionale Antonio Cassese evidenziato, con note a margine e appunti, tutti testi che sentivo miei anche grazie all’esperienza in Croce Rossa. All’esame scrissi un tema di cui ero molto fiera: la traccia si riferiva all’art.2 della Dichiarazione Universale dei diritti umani. Mi era venuto proprio bene.
In casa, non si parlava mai di quel mio tentativo, continuavo a frequentare lo studio dell’avvocato, sperando di avere superato le prove per la scuola di specializzazione. Poi seppi di esservi entrata, penultima in graduatoria ma dentro (mi ero presa i complimenti per l'elaborato scritto, ma all’orale avevo rischiato di compromettere l'esito finale con il mio inglese mediocre) e a me sembrò di avere vinto al Superenalotto: avevo  un vero motivo per non vivere come un insieme di step obbligati la laurea in Giurisprudenza. I miei genitori, invece, non la pensavano come me.
Sono altri due anni di scuola, ma non è troppo?”, “Devi tornare a Palermo.”, “È una perdita di tempo.”, “Non ti garantisce nulla.”, “E l’abilitazione?”... L’elenco degli impedimenti da loro sfoderati per scoraggiare il mio entusiasmo non finiva mai ed erano spintoni che mi facevano perdere l’equilibrio. La mia interlocuzione passava dal “ma perché no?" al “ma io…” e solo all’acme dei nostri scontri gli rinfacciavo di avermi tratto in inganno: perché farmi partecipare alla selezione se era già deciso che non avrei frequentato comunque il corso?
Poi tutto finiva con un’alzata di spalle e la mia resa era un modo per concludere una guerriglia dove l’unica disarmata ero io: se non volevano pagarmi la specializzazione, non avevo altra scelta che chiudere l’argomento e seppellirlo.
Mi vedevo come la vittima di un furto: cedere al tentativo di due ladri di strapparmi dalle mani una borsa piena d’oro. E quei due ladri erano i miei genitori: mi stavano rubando un sogno.

L’ultimo giorno utile per presentare la domanda, la seraficità di mia madre e la totale indifferenza di mio padre mi blindarono dentro una gabbia fatta di silenzio, rabbia, frustrazione.
Quant’era beffarda la copertina del libro sui diritti umani che sembrava riflettere il mio stato d’animo! 


“Per me è importante, per me importante, per me è importante” urlavano le mie viscere.

“Non era così importante”, risposi con un sorriso da pagliaccio a mia madre, nel momento in cui divenni ufficialmente una vincitrice di concorso rinunciataria.

E fu allora, in quel giorno di giugno, che corsi fuori di casa, con un cestino di parole mai dette che traboccava e il solito, stupido, intento di non fare capire a nessuno quanto stessi male; il diario tenuto stretto come l'unico sostegno cui aggrapparmi con il precipizio sotto ai piedi.
Corsi lontano, imboccando la stradina di campagna che percorrevo sempre da piccola con le mie cugine, quando finivamo il nostro pomeriggio di giochi con una scorpacciata di pistacchi e lì sfogai tutto quello che avevo dentro per tornare a recitare il ruolo della praticante legale che non aspettava altro che prendere l’abilitazione e correre in Tribunale con una valigetta in mano.
Tutto secondo copione. 
Tutto secondo i desideri di qualcun altro.

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Se volete conoscere le ragioni della nascita di questa rubrica leggete l'#Eco 1

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24 commenti:

  1. Letto con un groppo in gola man mano sempre più grosso.

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  2. Molto sentito e molto commovente, anche in qualche modo liberatorio (le cose infine dette, sia pure a distanza di anni, sono comunque una liberazione, è terribile lasciarsele dentro per sempre).
    Se può consolarti, rimpianti di questo genere ne abbiamo tutti. Anche se poi vivendo la vita ci si rende conto che un sogno è bello finché resta tale, poi quando si avvera diventa concreto e mostra tutte le imperfezioni della materia e... Insomma, per capire se un'esperienza ci piace davvero bisogna viverla e scoprirlo: magari può rivelarsi una delusione clamorosa. Il sogno mai materializzato mantiene la sua perfezione di sogno, forse sarebbe stato bello anche viverlo chissà, ma al tempo stesso, nella vita effettivamente vissuta, l'evento non desiderato che non ci interessava per niente può essersi dimostrato assai più soddisfacente di quanto avremmo mai immaginato... e in fondo ciò compensa il sogno rimasto tale, no?

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    1. Certo, poi nella vita mi è capitato molto altro di gratificante e quella parentesi si è chiusa, ma il rimpianto nasce proprio dal vuoto d’immaginazione che ti fa dire: chissà cosa sarebbe accaduto se. Non mi ha mai consolato sapere che probabilmente il corso sarebbe stato un fallimento, perché nessuno potrà mai confermarmelo ed è quel dubbio irrisolto che lascia tutto sospeso. Invece di casi in cui una cosa snobbata si è rivelata poi vincente ne ho vissuti diversi, ma non riesco a dire che ciò abbia compensato i sogni non realizzati: quelli rimangono appesi. Sono superati, non sono più sogni: ormai, appunto, sono solo rimpianti, che non si dimenticano (accidenti, aggiungo!)

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  3. Racconto drammatico in cui mi ci riconosco, avendo vissuto una situazione molto simile, anzi praticamente identica, alla tua.
    Tutta la mia comprensione.

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    1. Come diceva Ariano nel commento sopra, scriverne, anche a distanza di anni, può essere liberatorio. Forse anche leggere una vicenda altrui e immedesimarsi.
      Grazie per la comprensione.

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  4. Hai raccontato alla perfezione una storia temo comune, temo sopratutto per le donne. Spesso i nostri desideri e le nostre aspirazioni hanno un valore, ma, come dire, anche no...
    Io in questo sono stata fortunata. Tutte le mie scelte, comprese quelle che mi hanno fatto preferire il tornare più vicina alla famiglia piuttosto che inseguire le mie chimere (senza quindi scoprire se erano tali oppure no), sono state mie. Non che questo mi renda esente dal rimpianto, ma almeno non si accompagnano a quell'amarezza così palpabile in questo tuo splendido post.

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    1. Scegliere cambia sicuramente la natura di un eventuale rimpianto: in qualche modo la responsabilità resta in mano tua. Hai fatto bene a chiamarla amarezza, perché il mio rimpianto nasce da una decisione subita e dalla mia incapacità di fare valere una mia istanza.
      Forse a una cosa è servita questa esperienza: non sono rimasta così remissiva di fronte a un legittimo desiderio.

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  5. Parole vibranti. Ti farei in complimenti, se non fosse per la tristezza, anch'essa molto ben trasmessa. Mi è sembrato di essere là, sotto il pistacchio.

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    1. Volevo sentirmi meno sola ai piedi di quel pistacchio e ci sono riuscita, però è una parentesi che come si è aperta si è chiusa, una volta messo il punto al post. Sono passati venticinque anni da allora, la faccenda è più che archiviata (per fortuna). Via la tristezza: è solo un racconto! 🙂

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  6. Non faccio fatica a calarmi nella tua situazione. Anche a me è capitato di sfogarmi scrivendo, senza nemmeno riuscire a vedere le parole per gli occhi appannati; e anch'io mi sono adeguata quando potevo ribellarmi, o comunque essere più assertiva. Se ci penso ora, mi dico che non sono stati veramente i miei genitori a farmi fare ciò che ho fatto; semplicemente i miei sogni sono stati messi alla prova, e non hanno passato il test per via del mio approccio rinunciatario. Ero giovane, non potevo ragionare come oggi. Poi guardo la mia famiglia, e penso che è andata benone così. :)

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    1. È vero, dare colpe non serve a niente e anch’io, a distanza di così tanti anni, non ho rancore nei confronti dei miei genitori, per niente, anzi, riesco perfino a capire il loro punto di vista di allora. È andata come doveva andare, nella vita è sempre così e anch’io penso che con la famiglia che ho messo su ho realizzato l’obiettivo più grande, alla fine.

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    2. (mi intrufolo qui, ché a questo punto commentare c'ha pocos senso) <3

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    3. Sempre gradita la tua presenza. 😉

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  7. T'ho letta. D'un fiato. E ti ho anche riletta. Forse è il tuo scritto più graffiante, quello che arriva come un pugno nello stomaco. E' difficile rielaborare, accettare, perdonare. Magari anche perdonare se stessi, per non essere stati abbastanza tenaci, caparbi... Conosco benissimo la sensazione, amica cara. I sogni andati non tornano. Ma l'essenza di quei sogni rimane: e tu potrai sempre vantare la tua che è strepitosa. Sei una donna rara, profonda e sensibile come nessuno. Ti abbraccio forte, Marina

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    1. Irene, ma come ci riesci bene tu, a farmi tornare il buon umore, dopo averlo sprecato appresso a una storia vecchia, che mi ha immalinconita, nessuno! A parte che ti ringrazio perché mi piace pensare alla tua sincerità e mi tengo strette le tue preziose parole, ma il fatto di essere capita alla perfezione mi dà un surplus di gioia! 🤗

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  8. I rimpianti sono terribili e dolorosi, soprattutto quando certe scelte sono dettate dai "consigli" benevoli di genitori e familiari. È un concetto che ho espresso in più occasioni, le nostre scelte sono spesso indotte dagli altri e avere la forza di ribellarsi ai "consigli ragionevoli" è sempre molto difficile, soprattutto per una figlia (incide secondo me anche il fatto di essere donna). Hai fatto bene a trasporre il tuo rimpianto in questo racconto, è un modo per urlare, a distanza di tempo, la forza di un rimpianto. La vita però è piena di rimpianti, è piena di bivi e di strade non percorse, forse quello che hai realizzato oggi vale molto di più di un sogno irrealizzato che resta bello proprio perché è tale.

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    1. Sì, non cambierei quello che ho adesso con nulla che avrei potuto avere in passato. Sono solo ricordi. 🙂

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  9. Come ti capisco, non sai quanto. E nonostante anche per me la vita ha avuto altri risvolti positivi, sono arrivati solo quando mi sono ribellata, con liti furibonde, le porte di casa massacrate. Tutti i miei rimpianti sono associati a blocchi avuti proprio dai miei genitori, pure i traumi che mi porto dietro. Ed è tristissimo. Quando poi arrivavo a qualcosa di bello e tangibile, se ne prendevano pure il merito, dimenticando di avermi fatto sputare sangue per arrivarci. Io alla fine preferisco non ricordare, perché ancora oggi la rabbia è tanta. Cerco di consolarmi pensando che sono tenace anche per questo. Però quel "E se..." mi perseguita.

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    1. A me è mancato, invece, il coraggio dell'azione: non ho mai saputo ribellarmi a dovere; ho sempre condotto discussioni blande e forse questo ha sempre dato il diritto ai miei genitori di pensare che, in fondo, determinate mie istanze non fossero per me così importanti. Do la colpa a loro perché un genitore dovrebbe provare a capire un figlio anche quando questi non è bravo a dimostrare ciò che prova, ma l'errore è anche mio che non ho saputo condurre giuste battaglie.
      Sono comunque esperienze che formano: ti lasciano il segno, ma in qualche modo ti aiutano a crescere. Sicuramente ne beneficeranno i miei figli. :)

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  10. Ma io dov'ero in quei giorni? Perché scopro tutto questo a distanza di più di vent'anni? A Roma, certo, nel tentativo di perseguire i sogni che i miei genitori, viceversa, non avevano ostacolato, anzi. Beh, anche i sogni per i quali si è percorsa molto strada, convinti di farcela, non sempre si realizzano. E l'amaro in bocca si fa sentire anche in quel caso, molto, ma molto forte. Ma siamo qui, e siamo di nuovo molto vicine. Grazie, amica mia.

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    1. Condividere un’esperienza serve anche a questo: ad avvicinare le persone in una sorta di fratellanza/sorellanza di vissuto. Ci si sente meno soli. ☺️

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