giovedì 28 gennaio 2021

H - Come Hitler vedeva i suoi tedeschi (Johann Lerchenwald)



“Fra un attimo tutto sarebbe finito. Lui si sarebbe cacciato una pallottola in testa e l’incubo, da lungo tempo divenuto insopportabile, avrebbe avuto termine.”


La fredda canna di una Walther PPK puntata alla tempia gli faceva meno paura dei russi, a pochi metri dal giardino della Cancelleria. 

Si era rassegnato al fatto che la guerra fosse irrimediabilmente perduta.


H - Come Hitler vedeva i suoi tedeschi” di Johann Lerchenwald è stata la mia prima lettura di questo 2021.

L’anno scorso, la curiosità di capire cosa avesse mosso Hitler a tanta farneticazione criminale mi ha spinta a leggere il “Mein Kampf”, ma, lo ammetto, ho faticato ad arrivare alla fine di quel noiosissimo testo e non per il contenuto in sé, quanto per la bruttezza dello stile e per l’illeggibilità della traduzione davvero pessima.

Ho messo ordine nella lucida trattazione del Führer, mal esposta nel suo saggio autobiografico, grazie al libro di Lerchenwald, pubblicato in Italia dalla casa editrice Jouvence, con la prefazione di Franco Cardini. La leggo con attenzione, per capire cosa aspettarmi dal romanzo. Lo storico parla di approccio nuovo e rivelatore, di tabù infranto e, quando ammette che simili libri possono essere causa di letture equivoche, non so se collocarmi tra i superficiali e frettolosi, da una parte o i prevenuti e malevoli, dall’altra: forse incarno tutte e quattro le tipologie di diffidenti perché nessuno, credo, sarebbe curioso di approfondire la personalità tanto controversa di Hitler, per scoprirlo addirittura fragile, con dei traumi infantili mai risolti, pieno di paure e di complessi che condizioneranno l’intera sua esistenza. 

Io sì: sono una lettrice curiosa.


Allora, senza puntare a giustificare in alcun modo il “mostro” tedesco né accusare autore, editore, traduttore e prefatore di faziosità, mendacio e magari apologia, ho voluto fidarmi delle parole di Cardini e della ricostruzione attenta fatta da Lerchenwald, per provare a smontare l’impenetrabile aura demoniaca di Hitler e restituirlo alla sua storia reale, in una dimensione che lo allontana dal mito e lo avvicina a una umana miseria. 

Non ho, ovviamente, rivalutato il Führer, del resto non era questo l’intento dell’autore e di chi ha creduto nella validità dell’opera, ma ho trovato interessante il suo punto di vista. Lerchenwald ha condotto un’operazione delicata: raccontando in terza persona le fasi salienti della vita dell’uomo Adolf Hitler, dall’infanzia fino all’ascesa al potere, è riuscito a realizzare un’indagine psicologica a carattere autobiografico, che scava nei pensieri e nelle intenzioni del protagonista, senza l’obiettività di una sistematica biografia. Ed è per questo che il libro non ha le caratteristiche della narrazione saggistica, ma rientra nel genere del romanzo storico.


Mi colpisce subito il fatto che il nome di Hitler non compaia nei primi dieci capitoli e che emerga, dall’undicesimo in poi, quando la sua presenza, per così dire, si oggettivizza per bocca di terze persone o all’interno di dialoghi riportati, come a rimarcare il distacco fra il soggetto della cui vita si sta parlando e l’individuo che si afferma negli anni, tramite lo sviluppo di vicende personali, conoscenze e incontri voluti dal destino. E mi colpisce, altresì, il frequente riferimento proprio a questo destino, ora chiamato “dea fortuna” ora “fato”, risolutivo di tante situazioni: 


Quante volte l’aveva colto di sorpresa con coincidenze al limite del miracolo, costringendolo di fatto all’azione. Quante volte l’aveva preso sotto la sua ala protettiva, soffocando in germe ogni nascente dubbio.”


Sembra proprio che tutta la vita di Hitler sia stata una congiunzione fatale di eventi, il pensiero continuo al suicidio sistematicamente smussato dal destino “benevolo” che lo condusse, per vie talvolta impreviste e imperscrutabili, ad abbracciare il sogno coltivato da sempre: essere la guida materiale e spirituale di una Nazione alla deriva, unico artefice della rinascita della Grande Germania, sconfitta e umiliata dalla prima guerra mondiale.

Perché lui, di fatto, veniva dal nulla e in pochi anni si era innalzato al rango di uomo più potente d’Europa.  

Lui, Adolf Hitler: quel timido e insicuro scolaro, malmenato dal padre (che esercitava un’odiosa tirannia domestica) e adorato dalla madre, il cui amore incondizionato rappresenta l’antidoto a tutti i mali e a tutte le ingiustizie di questo mondo; bravo a scuola, con l’hobby per la pittura e il desiderio di diventare, un giorno, architetto. Quel giovane lettore compulsivo di libri, che divora in giardino e in camera, sotto le coperte e sotto il banco di scuola e vorrebbe emulare Cola di Rienzo, tribuno del popolo, raccontato nell’opera “Rienzi” di Wagner (compositore verso cui nutre una profonda ammirazione). Senza titolo di studio, ridotto a condurre una vita quasi da mendicante a Vienna, una nullità sul piano sociale, unicamente munito di una vaga ma salda fiducia nelle proprie capacità e un’innata propensione verso il senso dell’ordine e la disciplina.

Lui, l’idolo adorato in tutto il Paese. C’era proprio da morire dal ridere!

Una frase, questa, ripetuta spesso dall’autore, che io interpreto come una sorta di incursione nel mondo del giudizio condiviso dalla moltitudine di detrattori di Hitler, che in lui vedono l’incarnazione del male. Ma è questa l’ironia che solleva l’ilarità: Hitler non era un uomo senza cuore. Qui, davvero, ci sarebbe da morire dal ridere! 


“Nel suo intimo era sempre rimasto il timido Adolf: per l’educazione ricevuta, né violento né portato a considerare gli Ebrei sanguisughe e il loro sterminio un bene per l’umanità.”


Basti pensare che non mise mai piede in un campo di concentramento né volle mai assistere a un’esecuzione, perché lo spettacolo della sofferenza gli rammentava quella vissuta in trincea durante gli anni della guerra, quando la vista della gioventù mutilata lo nauseava e gli faceva venire le lacrime agli occhi. 

Un condottiero non poteva permettersi sentimentalismi. E lui voleva essere come Alessandro Magno, come Cesare, come Napoleone, dominatori che avevano sconfitto gli avversari e acquistato gloria eterna per la loro totale mancanza di scrupoli. 

Chi si è posto un obiettivo e ambisce a qualcosa di straordinario non deve lasciarsi fuorviare dal sentimento. Ecco la regola. Da qui la sua inflessibile durezza, la spudoratezza degli ordini, il tono militaresco “recitato”, l’esagerata aggressività, che gli risparmiavano la fatica di un’opera di persuasione e semplificava le situazioni.


Queste furono le armi con cui Hitler poté garantirsi la superiorità non solo agli inizi della carriera politica, nei confronti dei suoi compagni di partito, ma anche successivamente, quando gli fu attribuito l’incarico di Cancelliere del Terzo Reich.

Dominare la popolazione tedesca fu un gioco da ragazzi.


Come Hitler vedeva i suoi tedeschi? 


Come degli “obbedienti creduloni”: aveva imparato che il cittadino del Reich possedeva una psicologia molto più penetrabile e prevedibile, che era facile indovinare ciò che voleva udire.

Sfruttando il disorientamento largamente diffuso nel Paese, le sue potenzialità di abile oratore (già sperimentate ai tempi del suo ingresso nel DAP, Partito Tedesco dei Lavoratori) e la naturale capacità di galvanizzare il pubblico con i suoi discorsi, Hitler si era ingraziato la popolazione, che lo venerava come un Messia. Troppo a lungo i tedeschi avevano sofferto del disordine e della mancanza di prospettive e lui era il salvatore che proclamava l’esistenza di un solo spirito tedesco, una sola operosità tedesca, un solo orgoglio tedesco, che tutto il mondo calpestava impunemente. Per questo era necessario procedere uniti contro i nemici. 

Non era difficile identificarli: c’erano i problemi economici, il carattere menzognero della “pace negoziata” a Versailles, l’odio per il Comunismo... e c’erano gli Ebrei, eterni capri espiatori.


Gli ebrei... Giusto ieri, come ogni anno, si è celebrato il Giorno della Memoria, in ricordo della Shoah.

Neanche la sensibile interpretazione fatta da Lerchenwald, nel suo romanzo, il racconto accurato di fatti, ragioni e pretesti, il tentativo di sondare la natura introspettiva di pensieri e ideali, riuscirebbe mai a spiegare come abbia fatto un solo uomo, con l’appoggio quiescente di una popolazione stregata, manipolata, testimone e complice di una politica criminosa e con l’apporto di uno staff di gerarchi obbedienti e incondizionatamente asserviti al suo volere, a diffondere tanto odio, ad arrivare a concepire, dopo una ferrea politica antisemita, la “soluzione finale del problema ebraico”.



So che l’autore non aveva altro obiettivo se non stimolare una riflessione più profonda su un tragico caso politico e suscitare un interesse diverso attorno a un desolante caso umano, considerato per intere generazioni solo il simbolo del male assoluto.

Dal canto mio, posso dire di avere apprezzato il lavoro, con qualche riserva dovuta al mio scarso ricordo degli eventi storici che, in mancanza di note esplicative, mi ha costretto a condurre approfondimenti contestuali. Ho impiegato solo più tempo a completare la lettura, ma, in compenso, ho ripassato con grande soddisfazione un intero periodo dimenticato, la Grande Guerra e tutte le dinamiche belliche fra i vari Stati europei nell’arco di tempo che andò dal primo al secondo conflitto mondiale.


Forse, Lerchenwald, ha raggiunto il suo scopo, se io, adesso, rimugino su tutto ciò che ho letto e vedo Adolf Hitler, con lo sguardo glaciale, mentre si punta la Walther PPK alle tempie e spara il colpo mortale, che lo consegnerà all’Inferno, dopo essersi chiesto chissà cosa avrebbero combinato i suoi Tedeschi, venuto a mancare lui.
















 



31 commenti:

  1. Gentile Marina Guarneri,
    grazie per la bella e acuta recensione. Spero che faccia nascere in numerosi lettori del Suo blog quella curiosità al di là di idee e giudizi precostituiti che L’ha accompagnata nella Sua lettura.
    Ci sarebbero dei punti da discutere, come ad esempio “l’innata propensione verso il senso dell’ordine e la disciplina” che Lei attribuisce al dittatore. Nel 1938, il massimo scrittore tedesco dell’epoca moderna, Thomas Mann, in un saggio intitolato „Fratello Hitler“, nel mentre esprimeva il ribrezzo per il torbido individuo, era costretto suo malgrado a riconoscergli le caratteristiche che solitamente contraddistinguono l'artista. E in effetti non di rado Hitler fece disperare persone del suo entourage e dell’amministrazione pubblica proprio per quella mancanza di ordine e disciplina, che invece esigeva fermamente dai suoi sudditi.
    Oppure il tema della Shoah: la convinzione erronea, ma suffragata da quasi tutta la letteratura e la filmografia esistenti, che Hitler fosse posseduto da un odio mortale per gli Ebrei e che il popolo tedesco fosse affetto da particolare antisemitismo. Si tratta di una spiegazione a portata di mano, apparentemente la più semplice, delle orrende atrocità commesse, anche se in verità non spiega nulla e non corrisponde ai fatti. Ma come dice Franco Cardini in un contributo al dibattito sul libro: “Nella fattispecie su Hitler si è impiantata una sorta di teologia e di metafisica della storia. Modificare anche minimamente il giudizio si può, ma solo per appesantirlo. Altrimenti s'incorre in una scomunica civile“.
    Purtroppo è un dato di fatto che Hitler, per educazione ed esperienze personali, non fosse un antisemita e che fra i Tedeschi l’antisemitismo fosse meno diffuso che presso altri popoli europei, e solamente accettando questa “sacrilega” verità, si può giungere a una spiegazione. A stabilire cioè come le orrende atrocità commesse fossero il punto d'arrivo dei calcoli perversi di un individuo e dell’assoggettamento a lui di masse manipolate. Un copione che si ripropone di frequente nel corso della Storia umana, fino ai giorni nostri: quello del diabolico connubio fra un demagogo e gente innocua. Perché condannare non basta a evitare simili tragedie, bisogna capire.
    Comunque mi conforta e riempie di fiducia il pensiero che Lei rifletta su quello che ha letto e confido che ad altri capiterà la stessa cosa.
    Un caro saluto,
    Johann Lerchenwald

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    1. Grazie per il suo intervento, mi fa molto piacere ospitarla nel mio blog.

      Immaginare Hitler disordinato e senza disciplina è come pensarlo spiritoso. E, a quanto pare, riusciva a essere pure questo, con i compagni di scuola.
      Il primo capitolo del libro mi ha fatto dimenticare per un attimo chi fosse Adolf Hitler, conoscerlo nella veste di bambino e adolescente spensierato, abile disegnatore, innamorato delle opere di Karl May, ancora di più mi ha spinto a domandarmi cosa, effettivamente, fosse accaduto in lui, quali elementi della sua personalità fossero prevalsi nel tempo per portarlo a essere ciò che divenne. E credo che, certamente, l’avere trovato un popolo fortemente suggestionabile abbia accresciuto il suo delirio di onnipotenza. Forse, senza una condiscendenza così ottusa, Hitler non avrebbe trovato la forza né l’appoggio morale per portare avanti la sua infima battaglia.

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    2. Marina, rispondo qui, sotto il commento dell'autore, di cui mi piace leggere questo intervento. Da insegnante di Storia, pur in un contesto come quello di 14enni, ragazzi che si affacciano appena all'adolescenza, non più bambini, ma in grado di ragionare in modo più acuto, mi pongo costantemente il problema di rispondere ai tanti perché.
      Ci arrivo dedicando da anni una parte del percorso di gennaio alla Memoria della Shoah, fino allo scorso anno trasformata in una drammatizzazione teatrale. In questa, si alternano testimonianze recitate, le sofferte testimonianze dei deportati dei campi di sterminio, a indicazioni storiche, citazioni di cronologia, in un alternarsi di riferimenti a date ed eventi, e voce dei testimoni.
      Fra gli interventi sulla cronologia, capita che i ragazzi scrivano testi riferiti alla "follia" di Hitler e dei fautori dello sterminio nazista. Testi che non correggo, pur dicendo loro che qui non si tratta di follia, ma di ben altro. Non ho mai dubitato che dietro la spietata crudeltà di Hitler ci fosse un banale uomo pieno di fragilità. Ho supposto che fosse stato tiranneggiato da un padre padrone, magari bullizzato negli anni di scuola, e tutto quel corollario di esperienze che appartengono ai deboli, ai fragili, a coloro che fanno fatica a darsi un'identità. Noto che, pur ricostruendo un tentativo di biografia, qualcosa continua a sfuggire, a restare incerto. Mi sono data una parvenza di risposta. Quel bambino sensibile e amante delle arti espressive diventa un tiranno crudele, cui la gente dà ascolto e si affida, per tutta una serie di fortuite coincidenze. Fortuite perché lo consegnino alla Storia come il più indefinibile dei barbari, fortuite per la sorte che attende milioni di ebrei, rom, omosessuali, disabili, nemici politici. Sarebbe ottuso definirlo folle, è stato invece un uomo fortunato. Un omuncolo vile (non mi stupisce che non abbia mai messo piede in un campo di sterminio) che ha trovato nella debolezza di una Germania spezzata da una sconfitta ma desiderosa di risollevarsi l'occasione per darsi una posizione egemone. La rivincita dell'individuo che negli anni della sua formazione era stato vessato e non aveva trovato modo di determinarsi. Hitler non viene neppure nominato in tanti percorsi di ricostruzione, perché non ci piace neppure prenderlo in considerazione, ma guardare, ancora e ancora attoniti, allo spettacolo del suo genocidio.

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    3. È automatico associare Hitler a una mente malata, lo definiamo folle perché va oltre la normalità concepire un disegno così terrificante ai danni di esseri umani con la “colpa” di avere costituito una comunità perfettamente integrata e anche ben inserita in certi contesti: la stampa era quasi tutta in mano agli ebrei che facevano ben sentire la propria voce, interrompendo quel flusso di intenzioni megalomani di questo uomo che quasi come un capriccio pensava di farla finita, di suicidarsi, tutte le volte che il futuro gli pareva incerto o perché vedeva lontane le possibilità di essere ciò che avrebbe voluto diventare. È come se fosse entrato, a un certo punto, in un tunnel a fondo cieco e l’unico modo per “venirne fuori” fosse proprio continuare a persistere nella strategia pensata. Un paradosso. Ma non è folle un uomo che rimane coerente fino in fondo con la sua missione: come uomo di Stato si era imposto il dovere di non cedere mai alla clemenza e così non fu clemente nemmeno verso se stesso, quando, accettata la sconfitta, ritenne di essere solo un perdente, indegno di vivere. Non pazzo, ma tragico, sino alla fine.

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    4. Uhm... credo che anche nella fine ci sia quella viltà di cui sopra. Non si consegna al ludibrio della massa, non vuole morire per mano dei giudici che avrebbero presieduto il processo di Norimberga, ma per mano propria. Vede nel suicidio la possibilità di un'uscita di scena teatrale. Ma anche lì, trascinando tutti dietro di sé. Ritenendo che un grande tiranno debba morire assieme a tutta la propria corte. Hitler è una maschera non di tragedia, ma di grottesco. Lo spettacolo di tutte le viltà, il "sovrano" che scimmiotta il passato storico e si illude, forse, che lo si ricordi come un esempio di eroismo. Un'aberrante omuncolo che sa già che se non muore di mano propria saranno gli altri a infliggergli la fine.

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    5. * un aberrante.
      Aggiungo: hai visto La caduta? Bruno Ganz lo interpreta magistralmente.

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    6. Visto anche il notevole riscontro che questa recensione ha già avuto, sento il bisogno di aggiungere ancora qualcosa.  Una nazione, che a 15 anni dalla fine della guerra (con tutte le maggiori città ridotte in macerie) si trovava ad essere  di nuovo fra le prime potenze economiche mondiali, non poteva certo aver avuto il tempo di riflettere su quanto era accaduto. L'unica possibilità che le si è offerta, lecita, facile e a portata di mano, è stata di scandalizzarsi e di replicare all’infinito un rituale mea culpa: ma questo non ha fatto altro che rinfocolare nel suo intimo un profondo malessere. Ed è stato l'aver avvertito questo grande malessere represso, con il pericolo di ricadute insito nel non avere mai seriamente affrontato il proprio passato, ad indurmi a scrivere H..

      Hitler non era tedesco e fino all’età di trent’anni si presentava effettivamente come un uomo innocuo, provvisto unicamente di un grande ambizione insoddisfatta e sprovvisto di idee per soddisfarla. Quelle caratteristiche che gli venivano  attribuite, e che lui stesso si attribuiva pubblicamente, come fanno tutti i demagoghi di successo, le aveva spigolate nel fertile terreno del paese nel quale il caso lo aveva condotto. Semmai la disinvoltura con la quale ha accettato di sfruttare la violenza omicida è stata favorita dalle esperienze fatte durante la Prima Guerra Mondiale. Naturalmente se qualcuno lo avesse tolto di mezzo in tempo, le cose sarebbero andate ben diversamente. Ma la spregiudicatezza e il cinismo con cui agì per assecondare la propria mania di grandezza sarebbero andati a vuoto se nel popolo tedesco non ci fossero state determinate  predisposizioni e aspirazioni. La mente di un demagogo può anche immaginare le più grandi atrocità, ma se manca chi può eseguirle, rimarranno perverse fantasie e magari non saranno neppure immaginate. Per quanto riguarda l’Olocausto, vale purtroppo lo stesso discorso e la vera tragedia in questo crudelissimo genocidio sta proprio nel fatto che, salvo delle eccezioni patologiche, quell’immenso odio per gli Ebrei, sempre addotto per spiegarlo, tanto in Hitler quanto fra i Tedeschi non c'era proprio. Perciò ancora più assurdo e tremendo appare il risultato, come ho voluto mostrare nel mio libro.

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    7. Ho visto quel film, Luana e davvero quell’interpretazione è la migliore che abbia visto fra tanti che hanno assunto quel ruolo al cinema.

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    8. Che poi, signor Lerchenwald, pensavo a quanti progetti di fare fuori Hitler si fossero susseguiti senza successo. Davvero il destino sembrava manovrare tutto affinché esistesse un prosieguo alla scelleratezza e tutto seguisse un iter ben definito. L’eroe del male salvato dalla sorte: credo che anche questo abbia fortificato Hitler nel suo disegno, si era convinto di essere un predestinato e anche la sua fine, per rispondere a Luana, pensata alla luce di quello che lui era certo di rappresentare, non poteva che approdare al suicidio.

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  2. Anch'io un anno fa avrei voluto leggere Mein Kampf, per farmi un'idea, per capire la follia di quest'uomo, poi il pensiero è passato e non l'ho più letto. Non mi stupisce che Hitler avesse degli aspetti umani, anche i serial killer erano dei teneri bambini prima di diventare assassini, molti di loro possono perfino suscitare pietà e comprensione per i traumi subiti nella loro infanzia. In realtà la domanda inquietante che mi faccio è come un popolo possa essere stato trascinato in una simile follia, parlo anche per il popolo italiano. Due popolazioni trascinate in una ideologia di crudeltà assurda. Ora se la popolazione di inizio novecento poteva essere più vulnerabile perché molto più ignorante e suggestionabile, oggi nonostante l'istruzione di massa e la potenziale possibilità di poter pensare con la propria testa, ci sono ancora rigurgiti potenti di fascismo e nazismo. Mi chiedo come sia possibile. C'era anche una parte di popolazione che probabilmente voleva opporsi e non lo ha fatto per paura o faceva finta di non vedere, per questo è importante opporsi prima che simili idee diventino...un regime.

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    1. Ho visto un documentario in cui si raccontava che all’indomani della cessazione delle barbarie ad Auschwitz, dunque, dopo la morte di Hitler e la fine della guerra, venivano organizzati dei veri e propri tour di cittadini tedeschi per mostrare loro cosa il Führer avesse fatto con il loro silenzioso avallo. Nel filmato c’erano donne che si coprivano gli occhi, altre che camminavano con la testa girata dall’altra parte di fronte ai carri pieni di cadaveri ebrei: uno spettacolo raccapricciante anche per noi dietro lo schermo. Molti sostenevano di non saperne nulla, di essere al corrente solo del fatto che gli ebrei venissero deportati in luoghi lontani e segreti, ma com’è possibile che non conoscessero l’orrore che avevano dietro casa!
      È una realtà spaventosa, che fa rabbia e lascia del tutto senza parole e non intendo quella degli ebrei sterminati, ma proprio la complicità di questo popolo che vedeva in Hitler il salvatore, il Messia.
      Oggi è diverso: non c’è un uomo che possa essere paragonato a Hitler, c’è solo l’ignoranza, l’insensibilità, l’incapacità di fare della storia una maestra di vita.
      I fenomeni pericolosi vanno arginati, non c’è dubbio e, per fortuna, non siamo un popolo di stolti, perché, mi dispiace, i tedeschi, oggi, la Germania tutta, saranno anche una super potenza economica a livello europeo, ma nessuno potrà mai dimenticare come si siano lasciati piegare e stregare da una mente malata e ciò che hanno fatto non li assolverà mai del tutto.

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    2. Se ti capita di leggere il romanzo di Liliana Segre "La memoria rende liberi" puoi capire come sia facile girarsi dall'altra parte, quando in Italia arrivarono le leggi razziali nessuno fece nulla, anche Mussolini veniva visto come un grande uomo.

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    3. Anche Mussolini ha parecchio da scontare, certamente. Ma non ha avuto il consenso unanime di tutti gli italiani, da noi si sono formati gruppi partigiani, tutto un movimento di ribellione armata e nemica della politica scellerata dei fascisti. Dimenticare mai e mai abbassare la guardia, non c’è dubbio, ma io personalmente non penso si possa tornare a quei periodi storici e a quelle figure di riferimento. A noi non capiterà più di vedere in personaggi alla Mussolini grandi uomini, come ai tedeschi peserà sempre il riscatto da uomini come Hitler.

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  3. Certamente un uomo che è riuscito a mettere insieme un movimento politico, portarlo in parlamento con numeri elevati, prendere il potere e sconvolgere il mondo non può essere una "caricatura", è chiaramente un essere umano a tutto tondo con mille sfaccettature. Però, resta comunque colui che ha ridotto milioni di esseri umani a numeri solo per perseguire le sue manie di grandezza, questo non può cambiare, né di conseguenza ci può essere un diverso giudizio storico e morale su di lui.
    Tempo fa ho letto una graphic novel sul serial killer Jeff Dahmer che ne fornisce un ritratto da giovane, cerca di capire come sia "nato" il serial killer. Certamente in alcuni casi si riesce persino a provare pena per lui, però non cambia il fatto che per ciò che ha commesso è legittimo e sacrosanto che sia stato condannato a dieci ergastoli.

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    1. Sai cosa mi fa specie? Che questo signore non avesse mai avuto nulla contro gli ebrei: prima di trasferirsi a Monaco viveva in un appartamento finanziato da ricchi ebrei; i suoi cantanti e attori teatrali preferiti erano ebrei, il medico di famiglia era ebreo e lui che era il figlio nullafacente di un funzionario delle dogane morto, aveva ricevuto più di un aiuto da benefattori ebrei. Allora, perché tanto odio?
      A un certo punto, Hitler si è trovato a incarnare un ruolo del quale non si è più potuto liberare, era troppo tardi per tornare indietro sui propri passi, quando forse si rese conto di essersi spinto oltre ogni limite. Nel libro si racconta un aneddoto che fa pensare:
      “Una volta, in un cinegiornale, aveva visto Charlie Chaplin attraversare l’America sul tetto di un vagone ferroviario, nel tripudio della folla accalcata lungo i binari. Anche lui era un grande attore, forse ancora più grande, e il successo che riscuoteva presso il suo pubblico gli procurava non poche soddisfazioni. Ma non s’inebriava ogni sera, come la gente di teatro, al momento dell’applauso finale. Aveva ambizioni ben diverse, e l’arte teatrale gli serviva sostanzialmente
      solo per raggiungere i suoi scopi.”
      Capito? Era una recita, la più grande interpretazione della sua vita. E la fama l’ha ottenuta eccome!
      No, non fa pena, ma lascia una scia di profonda tristezza: davvero un uomo, innamorato dell’arte, del teatro e della musica, è riuscito a rovinare una vita che poteva brillare in altri campi?

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    2. Non è che "non avesse nulla contro gli ebrei" ma era disposto a tollerarli. Nel giro di pochissimi anni, una volta diventato cancelliere e poi vincente nel partito nazionalsocialista, su imitazione della fascistizzazione dello stato da parte di Mussolini (che per lui è un modello da imitare all'inizio), già butta sul tavolo la questione giudaica, mettendo in atto le leggi razziali. Hitler ha tollerato gli ebrei, li ha sempre disprezzati, fin dall'inizio, perché la comunità giudaica detiene un potere economico, monopolizza gli scambi fra ebrei americani ed ebrei dell'area tedesca. Il popolo giudaico è il nemico numero uno nel momento in cui elabora di depredarli di quella ricchezza che da sempre ha solo tollerato.

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    3. Fin dall’inizio della sua carriera politica, sicuramente sì; del resto veniva dagli esempi forniti da Lueger, sindaco antisemita di Vienna e dalla società Thule, anch’essa di indirizzo nazionalistico e antisemita, con cui aveva rapporti. Si era riempito la testa di discorsi contro la “razza” ebrea che minacciava la superiorità e la purezza di quella ariana, ma non era così prima di tutto questo. Nel Mein Kampf lui stesso dice che per lui gli ebrei erano tedeschi a tutti gli effetti, se non per la diversa religione di cui però non si curava allora. E come dicevo, era circondato da ebrei che riempivano la sua quotidianità. In quel momento non è che non li tollerasse, in loro proprio non vedeva alcun germe di pericolosità.

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  4. Buongiorno Marina, hai scritto di un tema difficile. Non conoscevo il testo, nè l'autore, di cui ho apprezzato il commento, dunque non dico di un libro di cui si parla di lui solo al decimo o undicesimo capitolo. Mi auguro che nel prima e nel dopo, intendendo per dopo le riflessioni di chi legge, si apra uno spazio per interrogarsi sul perché un individuo abbia potuto costruire sulla base di altri pensatori un pensiero pragmatico tanto orribile e disumano che ha preso piede non solo nel suo paese ma anche altrove. Di questo mi preoccupo. Non dell'uno che muove il primo passo, per cui non nutro alcun sentimento di umana comprensione né mi interessa avventurami nelle sue evidenti turbe psichiche, ma di coloro che lo seguono ciecamente. Ancora oggi. Una domanda che porto tatuata sul braccio, se così si può dire. Cui non sono certa che il testo, da quel che capisco, offra una risposta. Ma attendo il tuo punto di vista e il vostro

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    1. In realtà nei primi capitoli la sua storia è trattata in terza persona, come dice lo storico che ha curato la prefazione, è una terza persona iperautobiografica e autoapologetica, per cui di fatto “parla” Hitler, ma si leggono solo i verbi: fece, disse, andò. Dall’undicesimo in poi (i capitoli sono 38) il nome viene fuori perché a citarlo è Hess per esempio, o Drexler... tutte personalità a lui collegate. A ogni modo, l’interesse che suscita il libro non è tanto attorno alla figura di Hitler in quanto tale, perché sarebbe assurdo volerne giustificare le azioni anche solo attraverso la sua storia; non commuove sapere che da piccolo veniva sistematicamente picchiato dal padre, alla luce, poi, del male che lui stesso è riuscito a infliggere. Io, leggendo, ho provato ad astrarmi dal mito e a calarmi nell’uomo che cresce in un certo modo, elabora certi pensieri, nutre dei desideri e a immedesimarmi nelle teste di un popolo che sembrava non aspettare altro per sfogare una rabbia repressa. Ho capito che c’è stato uno scambio perverso fra le idee di Hitler e le esigenze patite da un popolo stanco, avvilito: le une hanno incontrato le altre in una perfetta congiunzione che davvero sembra essere stata voluta dal destino. Il mistero resta questa cieca soggezione dei tedeschi, che hanno lasciato a un uomo ambizioso la totale libertà di ridisegnare il futuro della Nazione. Mi chiedo se la storia sarebbe stata la stessa se Hitler non avesse incontrato il favore incondizionato dei suoi connazionali (che poi lui era di origine austriaca)

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  5. Forse abbiamo visto lo stesso documentario Marina. Mi pareva SkyTg24 o forse era La7. Parlavano di bobine rinvenute da poco, con i filmati girati dai russi arrivati a liberare vari campi di concentramento. Bobine visionate addirittura da Alfred Hitchcock, chiamato a seguirne montaggio e regia per creare un documentario che raccontasse agli occhi del mondo lo scempio. Poi risultò un lavoro troppo lungo e nel frattempo altri filmati vennero distribuiti. C'è proprio la sequenza dei cittadini tedeschi chiamati a vedere l'interno di un campo di concentramento, e donne che vomitavano o svenivano a quell'orrore. Com'è possibile che nessuno sapesse, si immaginasse, si chiedesse dove finivano tutte quelle persone? Ho visto anch'io quelle immagini forti e non trovo spiegazioni, né su chi era convinto del proprio operato, né su chi l'ha lasciato fare girandosi dall'altra parte. Anche scusare quel personaggio con un'infanzia difficile, un padre cattivo e dei traumi irrisolti mi pare fin troppo facile. Ci sono tanti altri bambini che crescono in un ambiente ostile, ma non diventano dei carnefici allo stesso modo. Voglio sperare che alle condizioni attuali, nessuno possa più raggiungere un potere simile, che venga fermato subito senza esitazione. E la Giornata della Memoria dovrebbe aiutarci a riconoscere il pericolo.

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    1. No, dopo aver letto il Mein Kampf, avevo bisogno di approfondire determinate dinamiche e ho trovato su YouTube le registrazioni di un bellissimo documentario in dieci puntate trasmesso da Alpha, sul canale 59 del digitale terrestre (a quanto pare non più visibile). La trasmissione si chiamava: “Rewind - La vera storia della Germania”, veramente molto interessante. Ma sicuramente i documentari che affrontano questa tematica hanno attinto dalle stesse fonti documentaristiche, quindi non è da escludersi che le immagini siano le stesse. Terribili, sì e non voglio nemmeno pensare a cosa sia stato assistere dal vivo a tutto quell’orrore!
      Il libro non scusa né giustifica: vuole solo muovere alla comprensione di un fenomeno liquidato solo come una delle peggiori pagine della storia. Hitler è un mostro, certo, ma, forse, seguendolo nella sua vicenda biografica, risulta più “vero”, quindi trasferito su un piano umano. È illuminante la prefazione al romanzo di Cardini, senza la quale avrei intrapreso la lettura con il solito approccio condannatorio. Ho capito dalla sua spiegazione e, poi, leggendo il libro, che entrare nello spirito tedesco è una chiave di lettura, che non va trascurata: la vera potenza di Hitler si esercita nella capacità astuta di manovrare, Cardini dice, “le buone e le cattive qualità dei tedeschi”.
      Non è una riflessione semplice da fare, ma ancora citando le parole della prefazione: “la comprensione storica non ha nulla a che vedere né con la giustizia né con la condanna” e forse è così.

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  6. Io so che le biblioteche hanno una "lista" di libri "difficili", nel senso che sono dubbiosi se acquistarli o meno, e in genere lo fanno per chi ha bisogno di svolgere determinate ricerche. Tra questi ci sono il Mein Kampf (appunto), la Bibbia dei Mormoni e i testi di Scientology (alla biblioteca della mia città gliene volevano rifilare altre copie, e gli hanno dovuto che già ce le avevano e bastavano sicuramente).
    Comunque da testi come Mein Kampf sei a posto finché la lettura ti dà un senso di disturbo. Del resto mi chiedo quanti appartenenti a movimenti neonazisti lo abbiano letto (pochi immagino, già i loro predecessori non amavano molto i libri).

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    1. Quella del Mein Kampf è stata una lettura difficile, non tanto per il disturbo delle tematiche, ma per l’astrusità dei concetti elaborati, che certe volte sembravano pure farneticazioni. Poco chiaro, tradotto malissimo con dei periodi in italiano senza capo né coda. Ma poi è una trattazione meccanica, che non suscita alcuna emozione (in negativo, intendo). Capisco la “scomodità” nell’ospitarlo fra gli scaffali: io, in libreria, pensa, nemmeno l’ho trovato; ho dovuto recuperarlo in formato eBook. Resta comunque un testo scritto da una figura emblematica della storia e regolarmente pubblicato: demonizzarlo non ha senso (come fanno in tanti). Il mio primo acquisto è stato il cartaceo in una bancarella di libri usati. Non sai come mi hanno guardato quelli che mi hanno visto con questo libro in mano! Poi ho scoperto che era una versione farlocca e comunque, al di là del mio giudizio negativo sull’opera, sono contenta di averlo letto. Non è un testo che fa paura, è un libro che annoia.

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    2. A proposito di „Mein Kampf“, avrei da raccontare due piccoli e significativi aneddoti, tra loro collegati dal filo dell'ironia. Diversi anni fa, poiché la sua vendita era vietata dalla Legge, lo avevo chiesto in prestito in una delle diverse Biblioteche comunali di Monaco, non senza aver dovuto prima giustificare quella mia richiesta adducendo ragioni di studio. Al momento della consegna non capii subito che stava succedendo, ci fu uno strano movimento: in breve, fui fotografato di soppiatto, pur essendo regolarmente registrato presso quella Biblioteca. Voltiamo pagina. Qualche tempo dopo mi trovavo a Napoli, e il giorno della festa di San Gennaro volli fare una capatina al Duomo... Purtroppo fui trattenuto da una parente (partenopea) dalla chiacchiera perentoria, che non mi mollava, e arrivai sul posto troppo tardi: con mio rammarico, il miracolo si era già compiuto e la chiesa appariva deserta... Ma, non ci crederete, qualcosa trovai ugualmente di un po' prodigioso... Lo trovai su una misera bancarella appostata di fronte al Duomo: una copia originale del 1943 di "Mein Kampf"...

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    3. Inutile, dal destino non si scappa! 😁 Una rarità, la copia originale del 1943!

      Comunque, io trovo inutile mettere per così dire al bando alcuni libri: perché bisogna giustificare l’interesse a una certa lettura, addurre motivazioni? Alcuni , per esempio l’Opus dei, non parlano di censura, bensì di “consigli” per aiutare a scegliere i libri validi, eppure esiste un “indice di libri proibiti”, che mi fa sorridere. E poi, questa cosa è altamente condizionante: quando acquistai la mia copia del Mein Kampf, dopo essere stata al centro di sguardi fulminanti, mi sono allontanata a testa bassa, il testo (copertina rosso acceso: come passare inosservati!) cacciato subito in borsa. Ma di cosa dovevo vergognarmi?

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    4. Secondo me il libro di Hitler andrebbe proprio letto per far toccare con mano le assurdità e le astrusità che contiene. Così come la figura di Hitler va contestualizzata e spiegata. È troppo semplice dire che è un pazzo e in qualche modo lavarsi le mani di una tragedia collettiva in cui moltissimi sono stati di fatto complici attivi.

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    5. Ho voluto leggere il Mein Kampf e il libro di cui ho parlato in questo post proprio per approfondire una figura così controversa: devo dire che entrambe le letture sono state utili e soprattutto il romanzo di Lerchenwald, che prende le distanze da Hitler, ma tira dentro il ring tante dinamiche, che spiegano molto, senza mettere un punto definitivo all’intera faccenda.

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  7. Questo articolo è stato interessantissimo sia per la qualità della recensione sia per il dibattito arricchito dalla voce dell'autore. Io penso che non si possa afferrare nulla della personalità di Hitler senza riflettere sulla Prima Guerra Mondiale e sulle sue conseguenze. Grazie a tutti per il prezioso dibattito. Ho Mein Kampf nella mia biblioteca, è l'occasione per leggerlo.

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    1. Grazie Cristina, sono stata molto contenta anch'io di ospitare l'autore, che ringrazio ancora per il tempo e la disponibilità.
      Potresti pensare, chissà, di scrivere un romanzo ambientato in quel periodo, sebbene inevitabilmente dovresti toccare il tema della Shoah.

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  8. Gli sviluppi: "Scrittura di scarsa qualità, ripetitivo", questo il giudizio di un certo Davide su Il Libraio. Un libro nato dalla passione liquidato così da un cretino.
    Firmato Lodovica San Guedoro, che ha fatto la fatica di tradurlo.

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    1. Purtroppo di commenti superficiali sui libri letti sono piene le recensioni. Questo dispiace.

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