martedì 3 ottobre 2017

Prego, sul ring c’è posto.


Poiché l’argomento è vasto e complesso, invece che parlare di “romanzo” parlerei del romanziere. 

Non si può negare che la gran parte dei romanzieri non abbia un buon carattere: sono spesso eccentrici, hanno abitudini bizzarre e in più pensano di avere sempre la ragione in tasca, qualunque cosa facciano o scrivano.

Vi siete mai chiesti che rapporti intercorrono fra gli scrittori? Dubito che ci sia fra essi una sincera amicizia, solo in qualche raro caso sono capaci di instaurare rapporti intimi e duraturi. Sostanzialmente sono egoisti, presuntuosi e con uno spirito di rivalità molto accentuato. Tuttavia, non si può dire che abbiano “senso del territorio”, cioè che siano portati a escludere dal proprio ambito professionale altri nuovi scrittori e questo è un punto a loro favore.
Ci sono campi in cui l’”ingresso”, per così dire, è proibitivo: un romanziere che, a un certo punto, avendo una bella voce, decide di esordire nel mondo della musica, non troverà mai braccia aperte, sarà sempre guardato con diffidenza, come l’incompetente che si improvvisa, l’estraneo che tenta una strada nuova. Il contrario, invece, non di rado accade: ormai è facile che una casa editrice si interessi al libro di un cantante che si diletta nella scrittura o di un attore con velleità letterarie. In tali casi, non succede che un autore famoso si accigli o accusi di inesperienza il neo arrivato, semmai mostra curiosità, incoraggia persino chi non è del mestiere, perché, in fondo, per suonare sono richieste capacità specifiche, mentre per scrivere occorrono semplicemente carta, penna e fantasia.

In buona sostanza, la narrativa è un ring sul quale può salire chiunque voglia farlo, uno spazio ampio con un arbitro poco rigoroso. Gli scrittori-lottatori sanno che è facile accedervi, però, poi, saranno in grado di rimanerci a lungo? Perché il problema è tutto lì.
Scrivere un romanzo non è tutto sommato così arduo, ma pubblicarne molti e vivere di scrittura è un’altra faccenda. Un’impresa non da tutti: è questo che fa la differenza. 
Per tale ragione i romanzieri sono così indulgenti verso chi, pur appartenendo a un altro settore professionale, debutta sul ring della narrativa. L’ambiente letterario non è una società a somma zero: entra un esordiente/esce uno scrittore affermato; l’esordiente vende molte più copie/diminuiscono quelle dello scrittore già presente sulla scena. Si può convivere tranquillamente, eppure, nonostante ciò, è la lunga corsa a decretare la fama del narratore, sottoponendolo a una selezione naturale: quello vero è chi resiste più degli altri sopra il ring. 
Molte opere pregiatissime, che hanno ottenuto plausi, consensi e successo di pubblico spariscono nell’indifferenza generale, restano meteore; il romanziere degno di chiamarsi tale è chi lentamente costruisce la propria carriera con costanza e volontà e non è detto che abbia un’intelligenza brillante, che abbia fatto particolari studi, che abbia talento. A queste virtù è necessario che si sostituisca un requisito più potente e durevole, una sorta di nerbo robusto che gli consentirà di passare dalla spada alla scure, poi dalla scure alla mannaia, in una evoluzione che lo farà crescere e sopravvivere alla sua epoca. Gli altri sono destinati a tramontare. 
Questa è la vera prerogativa del romanziere professionista: la resistenza nel tempo.
È davvero così?

Aspettate, dimenticavo di dirvi che niente di tutto quello che ho scritto appartiene a una mia riflessione. Ho solo liberamente parafrasato e riassunto il primo capitolo (che si conclude con la frase copiata nel titolo del presente post) di un saggio autobiografico di Haruki Murakami, “Il mestiere dello scrittore”, finito di  leggere da poco.
Questa mi è sembrata l’unica parte veramente interessante del libro, rispetto alle restanti pagine, a mio avviso, poco utili.

Magari qualche osservazione possiamo aggiungerla noi.

46 commenti:

  1. Condivido quello che hai scritto in pieno.
    Quanto al libro ce l'ho tra quelli in attesa ma non l'ho ancora letto.

    Comuqnue credo che sì, solo chi resiste possa considerarsi davvero arrivato in questo campo (e anche in altri a dire la verità). Pubblicare un libro che è un capolavoro e poi pubblicare schifezze o più nulla non fa certo di un appassionato di scrittura uno scrittore.
    Quanto all'amicizia tra nomi affermati... credo che le più vere siano quelle pubblicizzate nel serial tivù Castle :) Tra scrittori un po' di rivalità, di... invidia se vogliamo penso che esisterà sempre. Ma è così in tutti i ampi lavorativi. L"io sono meglio" non morirà mai.

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    1. Proprio nella prima pagina, Murakami fa il famoso esempio di Proust e Joyce che, durante una cena, seppur seduti vicini, alla stessa tavola, non si parlarono quasi mai. Eccesso di presunzione, conclude.
      Il fenomeno, soprattutto fra grandi scrittori è possibilissimo, trovare la stessa presunzione fra esordienti, forse, è un po' meno giustificato.

      Concordo sulla capacità di resistere nel tempo per potere essere definiti "scrittori", non basta pensare di avere delle idee e scriverle: occorre disciplina, duro lavoro e costanza. In pratica il messaggio di Murakami è questo.

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  2. Io ho il libro di Murakami che mi aspetto da secoli sul comodino... Però concordo con la sua riflessione. Aggiungerei però che sembra che per scrivere siano necessarie poche competenze. Competenze linguistiche e narrative che molti credono di avere, ma in realtà non padroneggiano. Adesso anche quelle grammaticali scarseggiano.

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    1. Allora, io devo dire non ho trovato illuminante il saggio: nel suo modo semplice di dire le cose, Murakami, alla fine non fa che ribadire gli stessi concetti: che lui è, quasi, uno scrittore per caso, che gli è bastato sedersi un giorno e scrivere quello che gli dettava la mente, che lo sport lo aiuta molto (e qui concordo: mens sana in corpore sano), poi è tutto un "non saprei dire", "non saprei rispondere", cioè molto soggettivo, fai fatica a trarre qualche buon suggerimento, se non, appunto, la costanza nella scrittura. E lui sostiene che sia sufficiente avere delle idee, anche se poi il lavoro di revisione è meticoloso e lungo e lì, le competenze devono abbracciare tutti i campi: linguistici e grammaticali.

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  3. Il discorso della selezione naturale si percepisce spesso nella realtà editoriale, però che tristezza fa tutto questo. Vero che la competizione c'è in tutti i campi, però di certo in questo specifico non avrebbe motivo di essere, perché - come dicevi - non è che un autore toglie il posto a un altro. Di certo pestarsi i piedi a vicenda è una pratica squallida, possiamo solo augurarci di non vivere mai in prima persona niente del genere.

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    1. L'invidia coinvolge le persone a tutti i livelli: c'è quella tra grandi autori e quella tra esordienti, è inevitabile: il "perché tu sì e io no" esisterà sempre fra chi sgomita per arrivare lì dove vorrebbe essere. È triste, però, pensare che anche una critica mossa a fin di bene possa apparire come una scorrettezza: bisognerebbe imparare a riconoscere i buoni consigli, anche dietro un giudizio negativo, e non prenderli come "attentati" alla propria scrittura . Il mondo letterario è pieno anche di questo, ahimè.
      Murakami mi ha fatto riflettere sulla verità di questo sistema a somma zero: nessuno toglie niente a qualcuno, siamo tutti sul ring. Chi sarà in grado di rimanerci potrà permettersi il lusso di sentirsi arrivato (e forse nemmeno), gli altri annaspano e sgomitano tutti dalla stessa altezza. Pestarsi i piedi a che serve? È una guerra fra poveri.

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  4. Non concordo in quasi nulla. Che poi per scrivere basti carta e penna mi pare una bestialità; per lo stesso infingardo ragionamento per cantare basta l'ugola, per suonare basta una chitarra (e pure scordata), per dipingere un barattolo di colore, per ballare essere capaci di muoversi. E tanti saluti a tutto il resto. Certo invece tutto questo basta e avanza per venire dimenticati, alla prova del tempo.
    Beato lui che i romanzi li scrive così, sull'onda della prima cosa che gli viene in mente: evidentemente è come Giotto, che non aveva bisogno di compasso per fare i cerchi. Però è anche vero che se Giotto avesse scritto un manuale sull'arte di disegnare circonferenze, pieno solo di "prendi la matita e disegna una patata tonda", sarebbe stato un disastro per il 99,9% dei pittori che avessero seguito le sue indicazioni.

    Se qualcuno avesse la curiosità: no, a mio modo di vedere la scrittura di Murakami non supererà per nulla la prova del tempo.

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    1. TI aspettavo al varco, Michele!
      Sapendo come la pensi, mi sono detta "adesso Scarparo si rivolta sulla sedia". 😋
      Per certi versi neanche a me convince la semplificazione di Murakami. Lui dice, testualmente: "se si ha una certa capacità di inventare delle storie, in qualche modo si riesce a buttare giù qualcosa, senza bisogno di allenamento professionale”, però dice anche che il talento va portato in superficie, quando è nascosto e lo puoi fare solo scrivendo, stando chiusi in una stanza per giorni, mesi, con orari e metodicità, cioè non è una cosa che si improvvisa. Dice che la buona scrittura non è solo il frutto di un’idea, ma di un’idea che funzioni, che sia capace di produrre magia. Non dice cose sbagliate, secondo me è il modo in cui ne parla che sa di cose prese alla leggera. Lui crede che la scrittura sia un impulso puramente interiore che si manifesta in una forma e in uno stile spontanei, non è qualcosa che si può creare artificialmente, però parla di un complesso processo di revisione che dura mesi e mesi e mesi. Uno può dire "non mi rivedo nel suo modus operandi", ma è evidente che questo sistema di portare avanti la scrittura su di lui funziona: ha funzionato quando alle soglie dei quarant’anni, all’improvviso, si scopre scrittore vincendo un concorso e continua a funzionare ancora adesso, se i suoi romanzi sono tradotti in cinquanta lingue; significa che sono valutati secondo i parametri di culture diverse (e ancora lui pensa di essere uno scrittore in via di sviluppo, con ampie possibilità ancora di espansione). È sul ring da più di trentacinque anni ed è ormai famoso dappertutto, il suo stile è riconoscibile, è riuscito a essere originale, come voleva lui, questo è essere già a cavallo del tempo. Semmai ho trovato la sua visione semplicistica e poi non capisco il motivo di questo testo: è, in fondo, la storia autobiografica della sua carriera, ma non approfondisce nulla di concreto sulla scrittura: questa è la reale critica che muovo all’autore.

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    2. Sì, lo sapevo che m'aspettavi al varco :)

      Lasciamo perdere che uno scrittore professionista scriva una pagina in un minuto (per dire) e poi impieghi mesi e mesi e mesi per revisionarla. Te lo puoi permettere solo se sei ricco di famiglia oppure se fai soldi a palate; questo "non metodo" è buono solo se non hai mai il problema di mettere insieme il pranzo con la cena o di pagare le rate del mutuo. Ma ammettiamo per amor di discussione che uno scrittore campi d'aria, non abbia bisogno di niente e che il sistema "funzioni". Cosa se ne deduce?
      La scrittura è un'attività umana come tante altre, non è avulsa dal resto. Perché allora non si impara la musica chiudendosi in una camera a strimpellare? E perché non diventi campione di nuoto o di corsa andando tutti i giorni a fare attività? A cosa servono maestri e allenatori?
      E arriviamo anche più vicini a noi: un ragazzo che legge questo testo, perché dovrebbe andare a scuola? È lo stesso principio, no?
      A me, questo testo di Murakami, pare una cosa sbagliata nel merito e nel metodo. Diseducativo. Inutile. Diciamola tutta: censurabile.

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    3. Con riguardo all’ultima cosa che hai detto, c’è un capitolo che cade giusto a fagiolo, si intitola “A proposito della scuola” e qui Murakami non parla di scuola di scrittura, ma di scuola scuola. Lo studio non gli è mai piaciuto e non si è mai impegnato molto. Sostiene che la ragione di ciò è semplice: non era interessante, erano più interessanti libri, film e musica. Lo studio lo deprimeva. Dice che lo studio scolastico non vale granché e che l’unica dimensione in cui lo giustifica è quella personale: una scuola costruita a sua misura, organizzata a suo solo beneficio, senza regole fastidiose, valutazioni espresse in cifre, competizioni per classificarsi in graduatoria.
      La sua vera scuola è stata la lettura.
      Ora, io immagino un giovane, oggi, un po’ confuso e con mille ideali in testa, che legge questo manifesto antiscuola di un autore che magari mitizza, cosa ne trarrebbe: certo, non è un buon messaggio quello che passa.

      Per tutto il resto, una testa che va oltre certe affermazioni vede in quello che Murakami dice tante cose “oltre”. Credo che lui, come tanti, faccia parte della corrente di pensiero che rende il mestiere di scrittore un fatto individuale, interpretabile in modo soggettivo: a lui viene bene esserlo seguendo alcuni schemi, ma non dice che sia il metodo giusto.
      Fatto è che lui ha il successo che ha, innegabile, per me anche meritato.
      C’è arrivato così, da “autodidatta”, come potrebbe diventare famoso un cantante di strada, scoperto da un talent scout.

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    4. Non è vero: il mestiere l'ha imparato da chi lo ha editato, in quei lunghi mesi e mesi e mesi. Ma non ha l'umiltà di ammetterlo e, anzi, ha l'ego smisurato di prendersene il merito per imposizione divina. Perché è questo, che sottintende, con il suo talento individualista: Dio me l'ha dato, io ce l'ho (e voi no).

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    5. No no, lui dice: Dio me l'ha dato, forse ce lo avete pure voi. Scopritevelo da soli.

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  5. Uhm, suona un po' falso rispetto a quello che lui racconta della sua esperienza di scrittore ne L'arte di correre (dove paragona spesso la corsa alla scrittura, la fatica di una maratona con la fatica di un romanzo, i muscoli della corsa con i muscoli della trama, ecc) Perché lì dice di aver scritto il primo libro senza velleità artistiche, per se stesso, e di essere stato sorpreso della selezione ricevuta. In un altro capitolo (sono appunti sulla corsa scritti a più riprese, in diversi periodi) invece sostiene che la prima cosa è il talento (cioè, prima si sentiva una schiappa non degna di nota e improvvisamente si sente un talentuoso?), che non gli è importato molto di quel che diceva la critica dei suoi libri quanto piuttosto di dover rendere conto solo ai lettori (ma è la critica a riconoscere un talento o i lettori che acquistano per lo più narrativa commerciale?)
    Dopo questo, ho già Il mestiere dello scrittore che mi aspetta e poi leggerò qualcosa di narrativa, per capire il suo talento. Su certe posizioni mi sembra in contraddizione con se stesso.

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    1. Se "l'arte di correre" dice quelle cose, "il mestiere dello scrittore" le ribadisce o viceversa (non so quale abbia scritto prima.) Ho come l'impressione che lui (o qualcuno per lui che lo abbia guidato in questa operazione) si sia sentito in dovere di non fare mancare il proprio contributo nel panorama di testi scritti da grandi scrittori che danno consigli sulla scrittura (lo hanno fatto in tanti, e lui no?)
      Anche in questo libro dice molte cose, ma è ripetitivo.
      Murakami è uno dei miei scrittori preferiti, eppure leggerlo in questa versione ha sbiadito un po' la magia che vedevo attorno a lui.
      Questo, ovviamente, non va a inficiare il mio giudizio sulle sue opere, che comunque adoro.

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    2. L'arte di correre è del 2007, ma con appunti tra il 2005 (mentre si preparava alla maratona di New York) e il 2006. Il mestiere dello scrittore è del giugno 2015. Quindi dieci anni di differenza, di esperienza maturata, di ben altri otto libri scritti (tra romanzi e raccolte di racconti).
      In alcune recensioni dicono che i due saggi si assomigliano troppo, ma lo saprò dire sono alla fine di entrambi.

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    3. Ah, ecco: beh, sì, allora credo anch'io (seppure non abbia letto la prima) che le due opere si somiglino molto. Lui, nella postfazione, dice di non ricordare quando avesse iniziato a buttare giù le annotazioni sulla scrittura, forse cinque o sei anni prima, il che mi fa dedurre che siano gli stessi appunti usati nell'altro libro.

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  6. Il discorso secondo me è leggermente più complesso.
    Intanto ci sono gli scrittori "di consumo", quelli che hanno un contratto con un editore e devono "sfornare" un romanzo all'anno. Non c'è bisogno che sia un capolavoro, può anche essere stroncato dalla critica, basta che piaccia ai lettori e venda quanto basta per far guadagnare l'editore. Ecco, questi autori in genere sono combattenti solo sul piano personale, si impongono ritmi e tempi di scrittura, non si preoccupano troppo della "concorrenza" perché già sanno in partenza che il mercato librario è così.
    Ecco, questo tipo di scrittore è un vero professionista secondo me, indipendentemente dal giudizio che gli si voglia dare a livello di qualità letteraria.
    Poi ci sono gli autori che magari sono oggettivamente bravi, piacciono alla critica, spesso anche ai lettori ma non sempre, e tuttavia se possono permettersi di scrivere qualche libro è anche perché dispongono di altri redditi: scrivono articoli sui giornali (magari un giornale di un certo orientamento politico al quale l'autore in questione è legato), gli fanno scrivere millemila introduzioni a libri altrui (retribuite, ovvio), magari gli affidano qualche traduzione di cui sarà più che altro "supervisore" e la traduzione vera e propria la farà un altro...
    Ecco, questa categoria di scrittori, spesso intellettualoide e "organica" (cit. Gramsci) al proprio movimento politico, è quella più combattiva, ma anche più saccente e ipocrita (facile dedicare tre anni della propria vita esclusivamente a scrivere un libro, curando ogni dettaglio, se c'è chi ti mantiene e ti lascia praticamente le 24 ore libere ogni giorno).
    Poi ci sono quelli che, una volta avuto un minimo di successo, giocano a fare i guru, gli opinionisti, entrano nel mondo dello showbiz. Anche loro sono abbastanza combattivi, ma spesso le loro polemiche sono dettate solo dallo scopo di creare attenzione, non sono molto diversi da certi guitti che popolano i reality e i talk show. Magari hanno anche un certo talento a scrivere, però per loro viene prima "essere al centro dell'attenzione".
    Ecco, questo è il mio contributo alla discussione, spero utile.

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    1. Il professionista dunque, secondo te, è chi è in grado non di resistere al tempo con una produzione costante, ma chi è capace di sfornare anche a comando un’opera vendibile?
      Decisamente Murakami è di tutt’altro avviso e mostra un bel caratterino quando nega di potere scrivere con idee imposte dall’alto.
      La seconda categoria, probabilmente, è quella destinata a scomparire dal panorama letterario: i soldi, le amicizie, la politica, possono regalare un successo momentaneo, legato a quel momento, ma se non ti butti nella scrittura con perseveranza, se non segui un ritmo continuativo, tu non sei uno scrittore professionista, sei uno scrittore occasionale: piaci, ti leggono in tanti, ma domani nessuno si ricorderà più di te.
      L’ultima categoria è quella dei paraculi: talento o non talento, l’importante è che riescano a creare rumore attorno a ciò che hanno scritto. Non sanno però che così facendo si imbrigliano in una responsabilità più onerosa: garantire la loro presenza il più a lungo possibile nell’agone letterario, se no, sai che figura di m., dopo tanto baccano.

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  7. Murakami non rientra tra i miei preferiti, anche se ho letto troppo poco per dirlo ad alta voce, ma in questo caso credo esprima un giudizio prettamente personale. Sicuro non esiste ambito dove si vada d'amore e d'accordo, nemmeno la famiglia è tale luogo e come raccontavi in uno scorso post neppure sul lavoro, quindi perché mai gli scrittori dovrebbero fare la differenza? Certo a farla sono gli individui e qui ognuno è a sè.
    Io non sono invidiosa per natura, ma ho potuto constatare che ci sono due diversi modi di porsi davanti a un evidente atteggiamento discriminante.
    1) Perché sempre lui viene premiato, messo in evidenza e non io? (e ti rode il fegato mentre sprechi il tempo a recriminare esaminando all'osso l'operato altrui)
    2) Cosa non ho fatto per essere al suo posto? ( e impieghi il tempo a vivisezionare il tuo lavoro nella speranza di capire cosa non va bene e non ha funzionato)
    Forse ce n'è un terzo, del ognuno ha la sua sorte e non è detto che ogni libro scritto sia un successo. Accettarlo da subito fa la differenza. Poi o si nasce collaborativi o individualisti...

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    1. Tutto il libro è una parentesi personale, per questo mi è piaciuto poco: uno scrittore di questa portata dovrebbe tendere a "universalizzare" certi principi di scrittura, invece lui sembra quasi dire ai suoi lettori: "non badate, comunque, molto a quello che sto dicendo, perché ognuno ha un suo percorso e questo è semplicemente stato il mio".

      Io dico che l'invidia altrui facilita il successo di chi è invidiato, un po' come quando sogni la morte di una persona e si dice che gli hai allungato la vita. 😋

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  8. Ho letto questo post con un certo senso di straniamento, perché io sono una persona tutt'altro che competitiva, e forse anche questo mi ha reso difficile la vita in ufficio: sono una di quelle persone a cui frega di fare il proprio lavoro e di farlo bene, tutto il resto è secondario. Inoltre dico sempre che un libro non è una lavatrice: ne compri uno e sei a posto per dieci anni. I lettori forti comprano il libro do tizio, di caio e sempronio. Per questo motivo, tizio caio e sempronio dovrebbero aiutarsi a vicenda. :)

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    1. Murakami non ama la competizione, anche lui ha a cuore solo il proprio lavoro, però si rende conto che nel mondo degli "artisti l'ipocrisia è possibile. Lui, però, dice che non c'è una corsa a chi arriva primo, come potrebbe essere per uno sportivo, che tra scrittori c'è curiosità, attesa, si guarda all'altro non come a un "avversario", ma come a un collega che sta facendo un percorso e poi vediamo che accade. La collaborazione non è impossibile, dovrebbe essere naturale, ma spesso, quando c'è, non è sincera.

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    2. Come in tutti gli ambiti di lavoro, in letteratura ci sono le persone per bene e gli sciacalli, gli ipocriti, i raccomandati, i leccapiedi (voglio essere fine). I colleghi non te li puoi scegliere, simpatie e antipatie ci saranno sempre, e possono mandare in crisi anche la persona più collaborativa del mondo. Tuttavia, ciò non esclude che sul lavoro possano nascere rapporti di collaborazione e stima sinceri e appaganti. Credo che anche Murakami la pensi così. :)

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    3. Sì, è così, lo dice tra le righe e anche fuori dalle righe.

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  9. Aggiungo alla discussione interessantissima due mie riflessioni spero adeguate. La prima riguarda il rapporto tra romanzieri: sono d'accordo sul fatto che il successo di uno non toglie niente a un altro, anzi se un esordiente riesce ad avvicinare nuovi lettori, ciò non può essere che un vantaggio per coloro che scrivono. La seconda è che il concetto di scrittura di Murakami è molto simile a quello anglosassone, cioè molto diverso da quello italiano. Io concordo con lui al di là della debolezza con cui esprime i concetti. La scrittura è un esercizio costante, un lavoro metodico rigoroso, un mestiere artigianale. La semplificazione del prendere carta e penna credo sia un invito a rimboccarsi le maniche e a sporcarsi le mani (come dice Grazia)

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    1. Credo che il messaggio sia proprio questo, Rosalia: lavorare sodo, con metodo e costanza. Non adagiarsi sul successo del primo libro stravenduto, il romanziere di professione deve chiudersi in una stanza, deve meditare la storia per ore, scrivere ogni giorno tot pagine, non mollare mai. È una fatica ben ripagata, se va bene, ma l'obiettivo che deve inseguire l'aspirante scrittore è quello della perseveranza e dell'organizzazione, non quello di arrivare alla pubblicazione. È un buon suggerimento, niente che noi non sapessimo già.
      Qual è il concetto di scrittura anglosassone?

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    2. Proprio quello che hai appena espresso. Da noi in Italia sia fa più fatica ad accettarlo, si pensa alla scrittura come un'arte in mano a pochi, a coloro dotati di sacro fuoco. Gli scrittori affermati sono ammantati da un'aurea intellettualoide irritante, basta farsi un giro in uno dei concorsi nazionali. Sappiamo, sappiamo... ma repetita iuvant

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    3. Non conosco le "regole d'ingaggio" anglosassoni, qualche volta, a dire il vero, mi sfuggono pure le nostre, però non credo che sia del tutto come dici tu: alla fine, sembra quasi che gli scrittori di successo siano tutto meno che intellettualoidi. Semmai vigono altri meccanismi non proprio limpidi: i premi importanti seguono logiche tristi, premiano in base a scambi di favori o cordate, certo, lo sappiamo bene, ma poi salgono sul podio persone che, magari, non ti aspetteresti. Lo zoccolo duro degli scrittori forti non lo puoi abbattere, ma ormai l'arte della scrittura è davvero in mano a chiunque.

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  10. La resistenza nel tempo non mi fa paura (o quasi). Mi preoccupa il tempo che passa e la vena che si inaridisce, quello sì...

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    1. Ci sono scrittori che emergono in età da pensione. Non penserei al tempo che passa, certe volte la fantasia ne guadagna.

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  11. Non sono poi tanto convinto. Io penso che alla base di tutto ci deve essere il talento. Se non hai quello, puoi stare sul ring per tutti i secoli dei secoli, senza mai scendere vittorioso. E amen.

    Mi stupisce che si parli della resistenza come di una prerogativa del romanziere. Puoi senz'altro crescere e maturare esperienza ma se non hai talento, non vai molto lontano.
    Vale per la scrittura, vale per qualsiasi arte e mestiere.

    Qualcuno ha scritto "a cosa servono maestri e allenatori?". Penso che servano proprio a tirare fuori il talento che hai. Se non ce l'hai, non serve nessun maestro, nessun allenatore, nessuna resistenza. Dalle mie parti un proverbio dice che "da un asino non puoi tirare fuori un cavallo".

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    1. Ni. Nel senso: è vero, il talento o c'è o non te lo puoi inventare, però non sono convinta che sia solo quello a farti andare avanti. Prendi il solito Fabio Volo: io non credo nel suo talento, è un raccontastorie, è spiritoso, ha voglia di raccontare delle cose e scrive. È apprezzato, la gente lo legge volentieri e lo compra: questo ritorno, forse, lo incentiva. Non diventerà mai un classico, però, nel frattempo lo possiamo definire scrittore, in base alla legge murakamiana della resistenza sul ring.
      E poi ci sono i talentuosi che non sono scoperti, magari è il milionesimo esordiente che si autopubblica e non se lo fila nessuno per una serie di solite ragioni.
      La macchina editoriale cammina grazie ad altre dinamiche che conosciamo bene, non so se questo famoso talento premia sempre.

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  12. Non ho letto il libro, però credo che dietro l'apparente banalità del: "questo è il mio percorso, per gli altri non saprei", ci sia una grande verità. Per scrivere serve carta, penna e fantasia e sembra poco, niente a confronto di tutto il lavoro, l'impegno e le competenze necessarie per buttar giù una bozza di storia decente. Però, è vero che carta, penna e fantasia sono gli ingredienti base, inizia tutto da lì. Senza contare che nella fantasia di ognuno c'è tutto un mondo e un modo di sentire, di relazionarsi con la vita e le persone che non è paragonabile con nessun altro. Poi, c'è quello che scegliamo di raccontare, il come, il tempo che dedichiamo a revisionare e a porci domande. Questo non è poco. Chi desidera diventare scrittore cerca di scovare suggerimenti da chi c'è l'ha fatta, ma non credo sia possibile, in verità. C'è lo studio, la tecnica, la perseveranza, ma condivido con Darius il discorso sul talento. L'unicità che riversiamo in una storia dipende da noi e a essere non si impara. Con questo non voglio dire che lo studio non serva, anzi. Il talento resta un materiale grezzo che richiede molto lavoro per risplendere. Murakami, forse ha semplificato, ma tra le righe mi sembra dire: siediti e scrivi partendo da te stesso, da quello che immagini poi, correggi, revisiona, resisti e resta a vedere che succede. Il tempo risponde quasi sempre.
    Buona giornata Marina 🙂

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    1. Sì, leggi bene tra le parole di Murakami, vuole dire questo: la scrittura è un processo interiore spontaneo, poi il resto interviene ad affinare e raffinare, però è anche vero che non avviene tutto in automatico: il tempo risponde, ma deve essere aiutato da altre componenti, che nel caso dello scrittore giapponese è stato un buon colpo di fortuna con quel primo romanzo scritto quasi per caso e presentato a un concorso, poi vinto. E lui lo sottolinea sempre, che comunque il suo esordio è stato baciato dalla dea bendata. Sì vede che era il suo destino.
      Buona giornata a te, Iara. (Ho finito Cognetti, poi ne parliamo)

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  13. Non avevo riconosciuto Murakami, anche se capivo che non eri tu a scrivere. Restare sul ring deve essere un bel cimento, ma credo che sarebbe bello avere almeno l'impressione di poterci arrivare. Non dico che tutti meritino di avere migliaia di lettori, ma la sensazione che l'editoria sia una scatola chiusa è spiacevole, anche se non corriponde al cento per cento alla realtà.

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    1. Io, poi, ho fatto anche un'altra valutazione: parliamo di uno scrittore giapponese, pubblicato da una casa editrice giapponese e poi assorbito daal'editoria americana. I processi non sono gli stessi: le nostre case editrici seguono logiche diverse, hanno anche esigenze diverse. Qui un Murakami farebbe fatica a emergere.
      Lui è salito sul ring per un colpo di fortuna, poi ha saputo rimanerci sfruttando il talento che ha scoperto di possedere. Basterebbe anche a noi essere messi alla prova, sopra quel ring, per capire se siamo o meno in grado di rimanerci?

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  14. Non ho letto nulla di Murakami e forse in futuro leggerò un suo libro soprattutto per curiosità, magari mi conquisterà. Riguardo alla rivalità nella scrittura, credo esista così come in tutti gli altri campi, nella musica, nella pittura, nel mondo del lavoro, perfino nel vicino di scrivania che vuole farsi bello con il capo, così come esistono le persone stupide e le persone intelligenti. Vivere di scrittura é prerogativa di pochi, quei pochi che ci arrivano non è detto che siano i migliori in assoluto, saranno comunque molto bravi se sapranno perseverare continuando a scrivere, non vuol dire che non ci sia posto sul ring per nuovi scrittori pronti a loro volta a perseverare.

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    1. Sì, credo che l'esempio del calcolo a somma zero sia corretto: che sul ring della narrativa ci sia posto per tutti senza che ciò comporti la caduta di altri mi pare giusto. Mi piace anche l'idea che il vero romanziere sia chi ne fa una professione, alla fine è questo quello cui dovremmo aspirare: pubblicare sì, ma poi non fermarsi, perché se sei pubblicato una volta non è detto che lo risarai, cioè non è un fatto automatico, dunque vivere di scrittura significa ricominciare sempre da qualche parte e provare a trovarsi ancora lì, sulla cresta dell'onda.
      Un lavoraccio, poi, a pensarci bene.

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  15. Adoro Murakami come romanziere, molto meno in questa sua riflessione che non mi convince fino in fondo. La competizione è di qualsiasi categoria professionale, non di quella degli scrittori o di altre attività creative. Persino in un'azienda il collega anziano spesso guarda con diffidenza l'ultimo arrivato nel suo settore, più giovane e grintoso, perché teme che gli soffi il posto. Il tutto attiene, secondo me, al minore o maggior senso del proprio valore, e all'autostima, il che non significa credersi un genio, ma avere consapevolezza di capacità e limiti.

    Soprattutto non mi convince l'etichetta di romanziere professionista in rapporto alla durata. Ci sono grandissimi autori che non avrebbero nemmeno voluto veder pubblicati i loro romanzi: Kafka, ad esempio, pregò il suo amico di bruciare i suoi scritti, e meno male che non lo fece. Un altro esempio, tratto dalla poesia, è Emily Dickinson, che pubblicò poco o nulla. O, nell'ambito della fotografia, Vivian Maier, la bambinaia americana che era una straordinaria fotografa, e solo per un caso le sue foto vennero rinvenute solo dopo la sua morte. Il fatto è che la letteratura, o l'arte, è un grande mistero che sfugge a qualsiasi regola e quantificazione, e questo fa parte del suo fascino.

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    1. Sono le famose eccezioni che confermano la regola; non che in letteratura o nell'arte esistano meccanismi statici o automatismi, però è anche vero che chi si muove in questi ambiti sa cosa vuole e dove vorrebbe arrivare: chi scrive vorrebbe diventare scrittore, chi dipinge vorrebbe vendere i propri quadri e farsi un nome. Chi lo fa per diletto e poi, casualmente diventa famoso, appartiene alle eccezioni, che meno male che ci sono, se no ci perderemmo delle opere meritevoli. Poi, chissà che un domani molto domani uno di noi che ama dire di scrivere solo per il piacere di farlo non diventi il Kafka della situazione o la Dickinson, preferibilmente non post mortem! 😋
      In genere, però, penso che lo scrittore occasionale non possa definirsi romanziere. Per me la durata vuol dire questo: certifica un titolo che non tutti possono vantare solo perché sanno scrivere bene.

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  16. Mi sembra interessante ma non condivido tutto.
    Ad esempio io credo che per essere un romanziere non basti carta, penna e fantasia, ci vuole anche tanta pratica e passione (che senza quella, chi te lo fa fare?).
    Inoltre non penso che i nuovi arrivati al mestiere di scrittori siano così incoraggiati. Forse dagli altri romanzieri, ma sicuramente non dal pubblico, che nutre una certa stizza nel vedere un professionista di un qualsiasi settore gettarsi nella scrittura, un campo al quale non appartiene ma nel quale potrebbe avere successo di vendita per il solo fatto di essere già conosciuto.

    Per qualche motivo mi è passata la voglia di leggere Murakami, adesso xD

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    1. I nuovi arrivati, purtroppo, patiscono il pregiudizio a tutti i livelli: dei colleghi già arrivati, del pubblico diffidente, però io dico sempre che anche i migliori hanno iniziato da qualche parte, mica si nasce scrittori già affermati: basterebbe questa autodichiarazione di umiltà da parte di chiunque per fare funzionare meglio la macchina dei giudizi.
      Carta, penna e fantasia restano le basi incontestabili, del resto le prendi e le fai tue se sei mossa da passione: va tutto insieme.
      E ti posso dire una cosa?
      Io amo Murakami, ma... accidenti come ti do ragione: con questo saggio non ha fatto un buon servizio a se stesso. Non so, c'è qualcosa che lo allontana anche da me. 🙂

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  17. Ho letto il libro di Murakami e non mi è sembrato vada oltre una normale mediocrità: a dire il vero ritengo più interessante il dibattito che ne è scaturito qui. Interessante e sorprendente almeno per me perchè nel tono di quasi tutti i commentatori ho letto la presunzione di essere scrittori al di là della voglia di diventarlo veramente.
    Restare sul ring non è per me assimilabile al concetto di ottima scrittura, semmai attiene alla furbizia e a una corretta analisi ddel mercato editoriale di oggi.
    Gran parte dei testi editi negli ultimi 15 anni non si elevano oltre la mediocrità seguita però da grandi battage pubblicitari...ne riparliamo fra 20 anni?
    La scrittura che resta a mio parere è frutto di una pozione segreta e magica di un bel po' di cose, è incantesimo regalato all'intelletto. In certi casi è alieno persino a una sintassi regolare ma sempre deve lasciarti un segno di eternità dentro. E' questa la durevolezza da cercare, un'emozione che resti anche anni e anni dopo la prima lettura, la possibilità di riscoprire il lbro dopo tempo, rileggerlo e trovare le altre parole che non avevi letto di primo acchito. Ci vuole un tempo diverso e una mente diversa; le regole, i maestri, la costanza e la fatica servono ma non basteranno mai.In più di dieci anni ho letto in rete un mare di psuedoscrittori che vivono solo del piccolo palcoscenico virtuale cui sono legati, ho incontrato la stessa fauna (pagata però)anche fuori dal web, nessuna delle due mi ha convinto. La stragrande maggioranza di noi resta solo un blogger che disquisisce della necessità e delle regole per diventare uno scrittore di successo senza diventarlo mai.

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    1. In altre parole il ring è appannaggio dei classici.
      Io li tengo sempre un po' distanti dalle nostre chiacchierate senza pretese qui nei nostri spazi virtuali, perché quelle sono scritture che solo il tempo potrà certificare come eterne e non sappiamo quale degli autori contemporanei, un giorno, verrà studiato nelle antologie in mano agli studenti delle scuole. Credo sia difficile, però, un po' per tutti noi (scrittori, presunti, aspiranti, esordienti, che dir si voglia) pensare di potere elevarsi a un rango così elevato: proviamo a fare del nostro meglio, forse anche con un pizzico di presunzione, con il desiderio (già arduo solo a pensarlo) di essere pubblicati e di rimanere il più a lungo possibile nel cuore dei lettori. Il nostro è un ring più casereccio, ecco! 😀

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  18. Ho incominciato leggendo i commenti, così in un certo qual modo incuriosito ho letto il tuo post, ma non ho letto MuraKami e non so se lo farò. Alcune considerazioni, le poche che mi sono venute su. Ma che è sta storia della competizione? Se anche un cantante, un pallonaro smesso, un deputato trombato alle elezioni viene oramai pubblicato da quei rubagalline che sono i nostri editori di cavolate, cosa dovremmo fare noi che testardamente ci riteniamo scrittori? Impiccarci dalla mattina alla sera? E chi se ne frega, visto che così va il mondo gradiamo fuori dalla finestra le belle ragazze che passano e amen. E poi che vuol dire che ci dovrebbe essere amicizia tra scrittori? Mi spieghi perchè? Per poter litigare e poter diventare finalmente nemici? Come quando ci si lascia con una donna e ci si dice sapendo di mentire che rimarremo amici? Col cavolo! Ti ricoprirò di letame cercando di farlo prima che tu lo faccia con me. No, non esiste. Per scrivere non basta avere una risma di carta e un pacco di pebbe a sfera, occorrono tante cose che si accumulano col tempo. Certo bisogna saperci fare. Non basta che io mi metta la maglietta del Real Madrid e scenda in campo per far vedere a CR7 come si fa una finta con l'anca, un dribbling secco e un tiro imparabile. Ma una volta che hai scritto un romanzo devi trovare il matto che te lo pubblica senza chiederti un soldo, anzi dandotene in anticipo un bel po'. Poi devi trovare quelli come me e come te che lo comprano e se lo leggono e ne discutono. Poi devi essere capace di scriverne un altro che non sia la copia del primo e che magari sia più interessante. E poi devi saper scrivere ancora dopo quindici anni cose godibili come all'inizio.
    Eh cara mia, è dificilissimo in questa nostra patria dove se hai successo in qualsiasi settore puoi campare di rendita e pubblicare tutte le stronzate che vuoi, tanto i cosiddetti editori sono affamati di queste stronzate da pubblicare perché il lettore italiano medio -ignorante e incolto- sta roba legge.
    Datti una regolata e vivi felice, tu che puoi.
    Ciao.

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    1. Sì, la storia dell'amicizia fra scrittori puzza anche a me. Cioè non credo del tutto alla sincerità fra colleghi (forse di più a grossi livelli), ci sono solo sorrisi di facciata e tanta ipocrisia (mi è venuta in mente la fotografia dei podisti del Premio Strega, con la Ciabatti che a stento riesce a smuovere le labbra per un sorriso accanto a Cognetti vincitore).
      Il senso della vita da scrittore è proprio questo: scrivere cose che saranno pubblicate e continuare a farlo, meglio se con lo stesso risultato. Certo, se poi gli editori sono a caccia di bilanci in positivo, hai voglia di scrivere tutte le storie che vuoi sperando di avere una chance. Ma come dici tu: chi se ne frega, anch'io guardo dalla finestra i bei ragazzi che passano e ciao.

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