domenica 18 marzo 2018

Narrare un’immagine #4

Immedesimarsi nel personaggio


Mi immedesimo quando leggo e allora vuol dire che l’autore del libro ha fatto un buon lavoro; non mi immedesimo quando scrivo e allora vuol dire che non condurrò dentro la storia il potenziale lettore. 
Immedesimarsi ha le sue regole, anzi direi meglio richiede un certo equilibrio, perché se ci si immedesima troppo in un personaggio si rischia di strafare e di perdersi nel diletto della famosa ispirazione a ruota libera (che non garantisce quasi mai risultati ottimali); d’altra parte se ci si immedesima poco si rischia la superficialità, facendo apparire vuote le vite interiori dei personaggi, che invece trovano il loro spessore proprio nelle correnti emotive che li attraversano e li  spingono ad agire. 
A che serve curare la forma, a che serve avere in mente una bella storia se poi la si guarda dall’esterno come si osserva un bel quadro senza riuscire a penetrare il suo significato?
Se mi dite che voi, quando scrivete, siete in grado di entrare nel flusso della narrazione come protagonisti, vi sarei grata se mi deste qualche suggerimento. 
Avete una capacità stanislavskiana naturale oppure vi allenate? E i risultati che ottenete vi soddisfano sempre?

Io no, ecco, io non ne sono mai stata veramente capace. Infatti (e qui non faccio un favore a me stessa, ma resto convinta che nascondere i propri limiti o i propri errori nella scrittura non serva a nulla, tanto se ci sono si vedono), uno dei difetti del mio romanzo “31 dicembre” è stato l’avere enfatizzato troppo certe reazioni dei personaggi: l’eccesso di un mio tentativo di immedesimazione li ha portati fuori misura con l’unico effetto di depotenziarne la credibilità. 

Gli scrittori sono un po’ come gli attori: entrambi devono calzare le scarpe dei personaggi ed entrare nella loro pelle, sentirsi come si sentirebbero loro in una determinata situazione.
La regola del “magico se” di Constantin Stanislavskij insegna.  
Non chiedetevi: “se il mio personaggio fosse in questa situazione cosa farebbe?” Nemmeno: “se io fossi in questa situazione, cosa farei?” perché nel primo caso sareste semplici osservatori esterni, nel secondo voi con il personaggio potreste non avere nulla a che fare.
Chiedetevi piuttosto: “se io fossi il mio personaggio in questa situazione, cosa farei?” Non è come riversare se stessi nel personaggio. È solo un percorso che serve a creare un altro se stesso.

Come sempre la teoria è fantastica, ma sono i fatti che parlano e la pratica è sudore e anche avvilimento quando i risultati non sono quelli sperati.

E dunque, insieme agli altri obiettivi che mi prefiggo quando svolgo gli esercizi di Michele Scarparo, uno, forse il più importante, resta la capacità di immedesimarmi nel personaggio che sto raccontando.
In questa mia trama do un'interpretazione soggettiva a un quadro di Guttuso.


So che per incoraggiare il personaggio a essere come la sua natura vuole che sia devo “recitarlo”.
E questo ho fatto (e non ridete, please): la vedete la signorina in sottana seduta in modo tutto scomposto? 
L’ho imitata. 
Ho provato a buttarmi sulla scrivania e ho piegato le gambe nella stessa posizione (tanto è più o meno ciò che accade quando quello che scrivo non mi piace).
Che farei io se fossi nella situazione della donna ritratta? 
Perché sono lì? 

E poi la fantasia trova la strada. La mia ha trovato questa:

Te ne sei andato di nuovo. Sono solo le quattro del mattino.
Il primo foglio le finì tra i piedi, spinto da una mano nervosa.
Ti odio. Dove sei, adesso.
Accartocciò un altro foglio, che rotolò sotto il tavolo.
Ti amo, maledetto! ti amo ti amo ti amo ti amo ti amo ti amo…
Cancellò quello che aveva scritto anche nel terzo foglio, con tagli di penna che ferivano ogni singolo ti amo.
Quando ripensò a ciò che si erano detti e a quel rifiuto divenuto consenso fra le lenzuola, allontanò la sedia dal tavolo e si lasciò cadere sul letto, col sonno spezzato dal desiderio ancora di lui. La seta del baby doll scivolata fra le gambe le rinnovò il piacere che la condannava, ma le bastò ripensare ai disegni tracciati nell’aria con la brace della sigaretta, ai “non so” mescolati ai “potrei”, per tornare a sedersi con l’intenzione di scrivergli una lettera di addio, questa volta definitiva. Le lacrime scolorirono l’inchiostro sul foglio di carta.
Te ne sei andato.
Mi è bastato aprire gli occhi e sentire il tuo profumo al posto del respiro per capire di essere rimasta di nuovo sola, in compagnia della tua ombra.
Il whisky nel bicchiere le lubrificò la gola, la stanza era piena del fumo delle candele consumatesi nel buio.
… I “forse” del nostro rapporto azzerati dal tuo trasporto. Mi chiedo solo perché mi hai parlato ancora di infinito, con la luna piantata sullo sfondo della finestra. Mi vuoi e fuggi, mi vuoi e fuggi. È tutto qui, quello che mi chiedi: di aspettarti. Ed è quello che io non so fare, tutte le volte.
Sono stanca, sei un bastardo e ti odio. Io ti odio…

La vide seduta in una posizione che ne rispecchiava l’inquietudine e i fogli attorno a lei facevano da cornice al suo sonno scomposto. Lesse “ti odio” e le tirò su una spallina. Era quel tentativo di ribellione ad affascinarlo senza sorprenderlo: si allontanava e sapeva di diventare il suo tormento. Era ciò che più gli piaceva, per questo tornava sempre.
Si sedette davanti alla finestra e, con il giornale aperto tra le mani, aspettò che si svegliasse per regalare l’ennesima possibilità alla loro storia d’amore.





23 commenti:

  1. Mi sembra un'interpretazione molto efficace.
    Riguardo la capacità di "entrare" nel proprio personaggio o comunque nella propria narrazione, è qualcosa che a me viene spontaneo, una sorta di trance grazie alla quale mi estraneo dal mondo circostante. A volte sospetto che la mia passione per la scrittura nasca dalla ricerca inconscia di questa sensazione di distacco totale da quel che mi circonda.

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    1. A me viene ancora difficile fare coincidere queste sue fasi: il distacco dalla realtà che mi circonda e l’immedesimazione in ciò che sto scrivendo, cioè vorrei mi venisse naturale come accade a te, perché quando scrivo entro nel mondo che sto raccontando, ma poi mettermi nei panni dei personaggi mi viene difficile, tant’è vero che spesso ho come l’impressione che abbiano tutti la stessa voce.
      (Lo dico qua: hai riscosso successo come traduttore. 😉👏🏻)

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  2. Ecco, forse finalmente è stato individuato il limite fra scrittura destinata a narrativa e drammaturgia. Mio modesto parere: la drammaturgia ha il sacrosanto dovere di essere una narrazione di vita. Il teatro nasce esattamente con l'intento di creare immedesimazione nello spettatore, obbedendo all'obiettivo di essere catartico. Che forse poi è perfino una definizione limitante della drammaturgia.
    Lo spettatore vuole vedere la vita muoversi sul palcoscenico. Se non la vede in maniera immediata, perlomeno vuole, esige che in ciò che vede ci sia la possibilità di un "incontro" fra la scena e una parte di sé, un ricordo, una suggestione, un modo di essere.
    In un romanzo, a meno che non si stia parlando di una storia ambientata "qui e ora", non di genere ma che si presenti come uno spaccato realistico della vita contemporanea, ebbene, lo scrittore non può sentirsi obbligato a ricreare esattamente ciò che crea invece un drammaturgo. Bene farebbe altrimenti Fabio Volo, che basa il suo successo in storielle molto assomiglianti al reale, ricreando lo stesso ritratto mille volte, raccontando persone banali.
    Il teatro deve essere epico. Deve creare verosimiglianza, non semplicemente farsi imitazione.
    Quanto al brano che hai scritto... chapeau. :)

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    1. Che ne pensi del scuola drammaturgia di Brecht? Lui parte da un presupposto diverso: ho letto della sua tecnica di straniamento, della necessità di enfatizzare la recitazione per impedire proprio l’immedesimazione e l’ingresso degli attori nel flusso narrativo.
      Mi affascina anche questa interpretazione, anche se non ho un’esperienza da spettatrice teatrale tale da potere sottolineare differenze e verificare la resa di queste rappresentazioni su di me.
      Quello che dici tu, invece, l’ho sperimentato venendo ad assistere ai tuoi spettacoli: il meccanismo della sospensione dell’incredulita funziona benissimo e tu raggiungi perfettamente l’obiettivo che ti prefiggi.
      In narrativa, entrare dentro un personaggio significa “recitare” il suo ruolo: il personaggio deve vivere una propria vita senza che si intraveda l’autore dietro le sue azioni. Come la fai parlare un’ubriaca se rimani a guardarla da fuori? Vorrei riuscire a fare questo: diventare io l’alcolizzata che parla e agisce. Ancora peggio se dovessi recitarlo questo ruolo: come attrice sarei decisamente pessima. 😁

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  3. Nel brano si sente la tua partecipazione, quella donna accasciata sul tavolo come disfatta comunica sofferenza e stanchezza. Hai dato voce alla sua disperazione. Concordo sulla premessa, la difficoltà sta proprio nell'equilibrio. Anche l'eccessiva immedesimazione può allontare il lettore. La fatica sta nel rendere le emozioni autentiche non fasulle ^_^

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    1. Grazie Rosalia, vuol dire che il mio sforzo ha prodotto un discreto risultato. Faccio esperienza. 😊

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  4. Bella idea! Ho pensato anch'io ad una storia d'amore travagliata ed intensa appena ho guardato l'immagine.

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    1. Con la donna che si distrugge d’amore e l’uomo che bellamente se ne frega. 😁

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  5. Non sono brava a trovare difetti, proprio non ci riesco. Per me sei riuscita in pieno a centrare l'emozione di una donna succube della propria storia d'amore malata, a renderla fragile e scomposta come la sua posizione e in quell'unica immagine di lui, hai raccontato una storia.
    Non so, ripeto, io non ci trovo difetti e direi esperimento riuscito.

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  6. Sto ancora cercando di capire. In questo caso sembra un'istantanea dove, come hai già spiegato nei post precedenti, ci sono tutti gli elementi dell'immagine (cosa che reputi necessaria) e una storia. Ma non mi prende, non mi intriga. Io sono una da dettagli, apprezzo "quel rifiuto divenuto consenso" e "le rinnovò il piacere che la condannava", non tutti quei "ti amo ti amo ti amo ti amo ti amo ti amo…". Mi stona il baby doll perché in una descrizione così vicina all'immagine quello che ha indosso non è un baby doll. Mi piace però la struttura che in poche righe è lettera/prima persona, descrizione/terza persona, quel che è stato, quel che è, quel che sarà. Però ecco, mi piace più all'analisi che istintivamente alla lettura. D'altra parte la fai vivere! :D Io l'ho visto e l'ho data per morta nel mio esercizio. Immedesimarmi? No, perché sennò sono troppo presente, non riuscirei minimamente a “controllare” il personaggio (in particolare mi capita con i dialoghi, li rileggo spesso chiedendomi se avrebbero usato o meno quelle parole che troppo spesso mi tocca correggere perché sono le mie), ho bisogno di ragionarci da fuori non da dentro. Quando invece leggo è diverso, voglio stare dentro la storia.

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    1. Decisamente, gli unici modi in cui potrei fare “morire” i miei personaggi sono d’amore, di rabbia, di fame... stop! non sono contemplate altre morti. 😁
      Immedesimarsi è difficile proprio perché non sei tu che devi portarti dentro il personaggio, per cui non sono le frasi che useresti tu a dovere entrare in un dialogo: non è “se io fossi in questa situazione cosa farei”, ma “se io fossi il mio personaggio in questa situazione cosa farei”, che è una differenza sottile, invece è tutto lì.
      Vedere la cosa da fuori potrebbe non essere sbagliato, dipende poi dall’effetto che si ottiene, perché in questo caso il rischio è che studiando il personaggio “da lontano” gli si tolga tridimensionalità.

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  7. Mah! Io mi limito a scrivere. Appare l'immagine la seguo. Non è detto che riesca poi ad arrivare da qualche parte, ma non mi sono mai posto il problema di immedesimarmi. Scrivo e basta, poi sarà il lettore a giudicare. Non c'è nulla di studiato, di pianificato.

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    1. Io, invece, negli ultimi tempi, sto scoprendo che anche studiare cose molto diverse dal modo in cui ho sempre vissuto la scrittura, mi sta aiutando moltissimo a migliorarla.

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  8. Anni di gioco di ruolo in cui "sei il tuo personaggio in questa situazione, che fai?" devo dire che aiutano molto il calarsi poi nei propri personaggi narrativi. Per certi versi giocare di ruolo con altri abili giocatori (in uno dei miei due gruppi, ho altre 2/3 persone che scrivono narrativa e una che scrive per il teatro) credo che sia molto formativo per imparare a gestire dei personaggi letterari. Perché, secondo me, rendere credibile un personaggio non è difficile. Il difficile è renderli credibili tutti.

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    1. È vero, pensavo la stessa cosa proprio guardando questa immagine. Io ho focalizzato l'attenzione sulla donna, ma se dovessi descrivere anche l'uomo dovrei immedesimarmi nella sua indolenza (perché lo vedo così), anche nella sua spavalderia che lo rende insopportabile, dovrei diventare insopportabile pure io, dire e fare cose insopportabili. È difficile essere nella testa di tutti e fare in modo che nessuno si somigli.
      Affascinanti i giochi di ruolo, non ho mai provato.

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  9. Incominciamo dalla tua splendida interpretazione del quadro di Gattuso che tu hai semplificato dichiarandolo momento di spossatezza di lei mentre lui se ne frega. La solita storia di amore malsano, mal coltivato, maltutto. Bellissima interpretazione tua.
    Veniamo al nocciolo della questione. Queste tecniche non me le pongo nemmeno davanti. Quando ho un'idea di romanzo, la fagocito e la lascio sedimentare. Esce sempre qualcosa di nuovo, che accuratamente annoto scrupolosamente, fermo restando il principio che devo entrarci calzato e vestito nella storia e se non mi riesce mollo lì tutto. Prendoamo ad esempio una storia d'amore tra una ragazza che attende o comodi suoi, che deve liberarsi si sua moglie, almeno così lui dice. Non so pUò parteggiare per lei o per lui, ma essere una volta lei, una volta lui altrimenti è tutto falso e scolastico. il lettore lo avverte immediatamente, chiude il libro e lo butta via.
    Nessun autore ama ciò. Allora comincia a pensare come lei, poi pensa come lui, poi mettiti dal di fuori e guardali. Tu chiedi, ma quanto dura? Quel che occorre perché tu riesca ad essere e lei e lui. Allora attacca a scrivere, anche se produrrai qualcosa completmente diverso da quello immaginato all'origine. Scrivere una buona storia non è facile, mantenersi sempre ad un buon livello men che meno.
    Ho lavori fermi da anni. Non li riprendo finché non convincono ME.
    Qualcuno penserà che sono un presuntuoso arrogante. E chi se ne frega. Quel che importa è che la storia prenda alla gola il suo lettore.
    Poi ci sono tanti dettagli che sorvolo che sono il sale della storia. Piccolezze se vuoi ma che per me funzionano egregiamente.

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    1. http://www.ilsecoloxix.it/r/IlSecoloXIXWEB/genova/foto_trattate/2011/02/16/MIL109_SOCCER-CHAMPIONS-_0215_11--158x237.JPG

      ...irresistibile.

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    2. Ben ritornato da queste parti, Vincenzo. Ti do ragione: mantenere la storia sempre a un buon livello non è facile, soprattutto quando affronti il lungo viaggio del romanzo. Prima avevo anche meno pretese e i miei scritti erano passeggiate salutari, ora, che esigo da me certe prestazioni di cui so di non essere ancora all’altezza, sono scalate faticosissime e con risultati tutti ancora confinati nel cassetto. Ciò che mostro in questo blog come negli esercizi cui partecipo è solo un percorso: mi porterà da qualche parte❓

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    3. Ah, Vincenzo, se non lo conosci ancora, @Michele
      ne ha una sempre pronta per tutto! 😁

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    4. Io dico che ti porterà dove vuoi tu, con molta fatica perché esigi molto da te stessa, ma ci riuscirai da perfetta sicula.
      Però se esigi tanto da te stessa vuol dire che dentro di te sai che puoi. Le portate in faccia a volte fanno bene, si ammacca un po' il nasino, cambi pettinatura per un paio di settimane.

      Non conoscevo @Michele. Cos'è una specie di enciclopedia? Mi informo. Ciao.

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