Le Trame graffi(a)te di Michele Scarparo
Non me la sono mai cavata con l’ispirazione a comando. Non è del tutto una contraddizione in termini perché esiste il guizzo creativo, ma c’è anche un’ispirazione forzata in grado di produrre apprezzabili risultati.
Ecco, è qui che cado in un pantano, come quando a scuola la professoressa d’italiano dettava le tracce del compito e io sceglievo sempre la quarta opzione: l’argomento libero oppure, in generale, quando partecipo a un concorso letterario a tema. In questi casi la mia ispirazione rimane confinata in un recinto, le idee soffrono di claustrofobia e io scrivo con difficoltà.
Ecco, è qui che cado in un pantano, come quando a scuola la professoressa d’italiano dettava le tracce del compito e io sceglievo sempre la quarta opzione: l’argomento libero oppure, in generale, quando partecipo a un concorso letterario a tema. In questi casi la mia ispirazione rimane confinata in un recinto, le idee soffrono di claustrofobia e io scrivo con difficoltà.
Ma uno scrittore dev’essere in grado di spingersi oltre un certo modo - monolitico - di vivere la propria passione.
Questo è il motivo per cui ho assecondato i due esercizi di Michele Scarparo, che hanno lo stesso obiettivo: allenare la fantasia o su un testo già esistente (quello di una canzone) o su un’immagine. Del primo, i Racconti diVersi, avrò modo di parlare, oggi mi soffermo sul secondo: le Trame graffi(a)te.
Quando questo format ha fatto il suo ingresso su Scrivere per caso, il mio pregiudizio verso l’ispirazione “manovrata” mi ha portato a una immediata resa: non ho nemmeno tentato, perché è più comodo dire “quando e se mi viene in mente qualcosa provo”, eppure aspettare l'abbaglio della musa è il modo più fallimentare per accostarsi a una scrittura che non sia solo puro svago ma si faccia anche metodo, diventi “mestiere”.
Quando questo format ha fatto il suo ingresso su Scrivere per caso, il mio pregiudizio verso l’ispirazione “manovrata” mi ha portato a una immediata resa: non ho nemmeno tentato, perché è più comodo dire “quando e se mi viene in mente qualcosa provo”, eppure aspettare l'abbaglio della musa è il modo più fallimentare per accostarsi a una scrittura che non sia solo puro svago ma si faccia anche metodo, diventi “mestiere”.
Di solito lo spunto nasce spontaneo, ma quando devi rintracciare un’idea dentro un'immagine che ha già un suo significato, è la metafora di qualcosa, esprime il pensiero di chi l’ha realizzata, allora il gioco si complica: devi fare tuo quel disegno (o foto che sia) per darne una personale interpretazione.
Col secondo appuntamento ho voluto provarci.
e mi sono chiesta: a cosa mi fa pensare? Cosa mi colpisce di quello che vedo? (Io, per esempio, ho subito focalizzato l’attenzione sulla costruzione più che sul bambino del murales.)
L’ispirazione, quando non c’è, cerca comunque una strada per raccontare qualcosa.
Michele sottolinea: diamo sfogo alla fantasia, ma l’importante è mettere (o aggiungerne di nuovi) tutti gli ingredienti che servono per fare una storia.
Di cosa è fatta una storia?
Di una situazione iniziale, di una complicazione che interviene per scombinare le carte, della presenza di una forza antagonista, di un climax, di una svolta finale, ma certo poche righe non possono essere sufficienti a contenere in modo esauriente ciascuno di questi necessari elementi. Ho tentato.
Per trovare la mia storia dietro all'immagine sono partita dalla domanda principale: “perché il bambino è in questa posizione vicino alla porta chiusa di una casa disabitata?”
Le risposte che mi sono venute erano tutte ovvie: è stato abbandonato, maltrattato, sente litigare i propri genitori, subisce atti di bullismo, è arrabbiato con qualcuno, si è indispettito per qualcosa.
A voi cosa fa pensare?
Ma a parlarmi erano più la casa, la porta sbarrata e la vegetazione intorno. Su questi elementi ho intessuto una ministoria, anche se solo una penna esperta avrebbe potuto cavarne una pagina di spessore.
Insomma è saltata fuori l’idea: quattro vecchi compagni di gioco si rivedono dopo trent’anni e uno di loro, il narrante, ricorda un episodio d’infanzia in cui è stato protagonista di un’avventura che non è stata mai dimenticata né da lui né dagli amici.
Per sviare dal cliché in agguato ho solo aggiunto un ingrediente che mi è parso utile a sbaragliare le aspettative: il mistero.
Voi, per esempio, come vi comportate di fronte al rischio di una narrazione convenzionale?
Ed ecco la mia trama:
Ed ecco la mia trama:
Sembra trascorsa una vita, sono tornato e li ho rivisti: Antonio, Pompeo e Augusto, i tre della banda della quale facevo parte anch’io, Cesare. Avevo sette anni, loro erano tutti più grandi di me.
Quando in estate il caldo faceva fuggire le persone dalle abitazioni infuocate, io e la mia famiglia ci trasferivamo in campagna: per tre mesi abitavamo in una contrada lontana dalla città, dove mio padre aveva una piccola casa. È lì che ho conosciuto “il triumvirato”. Augusto si era autoproclamato il capo del gruppo, era quello che organizzava le escursioni nei boschi: lui le chiamava avventure, mia madre, invece, disgrazie, visto il modo in cui spesso andavano a finire.
Quei tre sono rimasti i soliti burloni; adesso hanno pance e calvizie e ridono ancora come dei ragazzini. Davanti a un cheeseburger e una birra abbiamo ricordato quella volta in cui Augusto decise di esplorare una casa abbandonata nel bosco, vecchia e cadente. L’assoluto divieto di entrarvi la rendeva più attraente e misteriosa e la nostra fantasia immaginava strane presenze al suo interno: orchi malvagi o spiriti maligni. Perlomeno questo è ciò che gli altri volevano farmi credere per spaventarmi: quando le imprese si facevano rischiose, il gruppo provava a scaricarmi, perché dicevano che ero fifone e troppo lento a correre, una palla al piede, insomma. E io per dimostrare che avevano torto facevo il coraggioso, giurando di non raccontare mai niente a nessuno e di ubbidire senza esitazioni al capo.
Quel giorno, a uno a uno, scavalcammo il muro sfondato aperto su un fianco della casa. Una volta dentro, io mi precipitai da solo in una stanza dove avevo intravisto degli oggetti luccicare nella penombra, ma sentivo le voci degli altri attorno a me e mi sentivo al sicuro. A un certo punto, insospettito dal silenzio che si era creato alle mie spalle, mi fermai di botto. Mi voltai e il buio della stanza mi inghiottì; allora chiamai prima Pompeo, poi Antonio, infine Augusto: non rispose nessuno. Convinto che mi stessero facendo l’ennesimo scherzo, mi diressi seccato verso l’uscita e, senza che me lo aspettassi, all’improvviso, sentii uno strano rumore, come un respiro rauco amplificato… e lo vidi.
Il terrore, in un attimo, piantò i miei piedi al suolo, consentendogli solo un piccolo spostamento verso la parete. Mi incollai al muro e trattenni il respiro, poi ingoiai il residuo di coraggio che dovevo dimostrare per primo a me stesso e corsi senza fermarmi né voltarmi indietro verso l’uscita.
I tre della banda mi trovarono accovacciato su un gradino con le gambe strette al petto e il viso che nascondeva le lacrime in mezzo alle braccia. Quando mi chiesero cosa avessi visto, per punirli di avermi abbandonato, li lasciai con la curiosità morbosa a prudergli il fegato: risposi che sarebbe rimasto un mio segreto.
Me lo hanno chiesto anche adesso, a distanza di trent’anni da allora: Antonio, Pompeo e Augusto volevano sapere cosa vidi dentro la casa abbandonata, quel giorno.
Fifone e lento a correre lo sono sempre stato e anche una palla al piede, per qualcuno, ma non sono un traditore e non ho mai violato la promessa di mantenere quel segreto.In un commento qualcuno mi ha fatto notare la non necessità di aggiungere il nome del narrante, all’inizio: "... li ho rivisti: Antonio, Pompeo e Augusto, i tre della banda della quale facevo parte anch’io, Cesare.
La mia intenzione era quella di rafforzare l’idea del “triumvirato”: i tre amici si chiamano tutti come i triumviri romani e volevo fare vedere che anche il protagonista aveva un nome in linea con l’”alleanza.”
Il finale, invece, è stato apprezzato.
Ciò che non si dice vince sempre.
Resta un ottimo consiglio quello di rileggere un testo a distanza di settimane: vengono fuori cose che giureresti di non avere mai visto in stesura e durante le revisioni.
Se volete potete leggere gli altri componimenti e i commenti direttamente dalle pagine del blog di Michele e, perché no, vi invito anche a fare qualche osservazione sulla scrittura mia, vostra, in generale: parlarne non è mai abbastanza.
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Mi è piaciuto molto il tuo racconto, sono stata avvolta dal terrore anch'io come Cesare. Una bella immagine. Bello anche il finale.
RispondiElimina😉
EliminaSuggestivo e... mi ha lasciato con la curiosità: pur non assomigliando neppure un po' ai triumviri, vorrei proprio sapere cosa ha visto Cesare nel buio.
RispondiEliminaResta il segreto di Cesare: non lo scopriremo mai. 😉
EliminaParliamo di scrittura, dunque, e lasciamo da parte i soliti commenti da lettori. Abbiamo un racconto, e la forma più classica del racconto prevede una introduzione in media res, un flashback, e la conclusione.
RispondiEliminaQui cominciamo bene, nel senso che il protagonista è già grande e rimanda a una vicenda di molti anni prima, però la prima frase si preoccupa di definire il triumvirato e non ci dice quale sia il conflitto. Ergo, quando torniamo indietro, non abbiamo nessun argomento sul quale focalizzarci; dal punto di vista della trama si potrebbe togliere e non cambierebbe nulla.
Poi dici che un racconto, come qualsiasi altra storia, ha bisogno di un conflitto e di un climax: giusto. Ma perché ha bisogno di quelle cose? Perché deve dimostrare qualcosa: della seria guarda, adesso ti dico il contrario di una verità della vita, e parrebbe proprio che le cose filino al rovescio - sempre peggio - e poi, sbam!, climax e la situazione si capovolge, con gran sollievo, e la verità vera viene rivelata.
Vediamo il tuo svolgimento: parti dicendo che lui è fifone, poi vuole dimostrare il proprio coraggio, poi sbam!: lui scappa e non dice cosa abbia visto. Cioè lui è rimasto il fifone che era in partenza, senza cambiare. Secondo errore: la storia non si chiude con il "fifone", ma con l'omertà, argomento del tutto diverso.
In buona sostanza: punti sul triumvirato, ma solo per l'assonanza dei nomi, senza che ci sia un parallelo tra quella storia e questa. Non ci riveli nessuna verità e, anzi, finisci per parlare d'altro.
Questa ragazza ha delle possibilità ma non si applica...
Ok, adesso sparami pure :)
Spararti?
EliminaQuesto è il Michele Scarparo che io amo! 🤥 😁
Marina, attenta a premere invio quando dichiari il tuo amore! 😅 Sulla scrittura, nello specifico, passo ma seguo con molto piacere; leggendo questo post ti confermo il mio entusiasmo al progetto!
EliminaMa se il progetto entusiasma, allora bisognerebbe partecipare. Voglio dire: provando a pensare di essere un editor (o direttore di collana che dir si voglia), vale a dire una persona che si accolla la responsabilità di mandare in stampa una cosa spendendo decine di migliaia di euro, nella speranza di riprenderli con una percentuale di guadagno. Non si può dire: "bello". Bello cosa? Cosa funziona? Cosa non funziona? Cosa manca per migliorarlo?
EliminaUn testo è un prodotto d'artigianato, non nasce per compressione delle meningi: ogni parola pesa, ogni virgola pure. Ci sono tutte le parole che servono? Sono nell'ordine corretto? Perché sì? Perché no?
Ecco, così si fa un buon servizio alla scrittura: bisogna saper giustificare tutte le proprie scelte andando al di là del banale gusto estetico. Un racconto è come una macchina (pigra): se non funziona potrà pure essere bellissimo, ma nessuno lo compra.
Scusami, sai ero impegnata a criticare Kafka. E poi io potrei fare “solo” commenti da lettore e, in casi come questo, dovrei prima fare i conti con i miei di esercizi (corrispondenti).
Elimina"Lettera al padre" è grande abbastanza per farsene scudo, sì :P
EliminaComunque cercare di descrivere in maniera puntuale perché "bello" o cosa sia che non convince, in una certa frase, è già un inizio.
@Michele
EliminaIn un racconto non tutti gli elementi devono spiegare necessariamente qualcosa: perché associare al “triumvirato” l’idea di un conflitto? Potevo non dirlo, ma il dirlo non è un di più: semplicemente la banda aveva scelto di chiamarsi così proprio in virtù dei nomi. Non ci trovo nulla di superfluo.
Se tu torni indietro trovi che il conflitto è implicito nel fatto che un bambino di sette anni si sia unito a un gruppetto di ragazzetti più maturi che lo considerano fifone e non lo vogliono tra i piedi (non era lui a considerarsi tale, ma gli altri a vederlo così) e lui, però, non vuole dimostrare di non essere fifone, ma di essere all’altezza delle avventure alle quali si unisce.
Infatti nella scena della casa, gli amici lo piantano per fargli capire ancora una volta di non volerlo dietro e allora lui piange perché ferito nell’orgoglio (non per la paura o perché è rimasto solo), così medita una sorta di rivalsa: non sappiamo cos’abbia visto, forse si è inventato tutto, ma conoscendo la curiosità degli amici (in cerca di avventure anche pericolose) decide di “punirli” lasciandoli con il dubbio di ciò che ha visto di tanto mostruoso là dentro.
Il cambiamento non sta nella dimostrazione del coraggio, ma nel ribaltamento dei ruoli: adesso è il piccolo Cesare a tenere tutti in pugno col suo segreto.
Semmai, se tutto questo non si vede o non si capisce il problema è un altro: non sono stata abbastanza chiara.
@Viola
EliminaTu sei parte in causa perché partecipi agli stessi esercizi.
Che scelte hai fatto tu? Da dove sei partita? Avevi un’idea precisa?
Di solito fai delle analisi puntuali, perché “passare”. 🙂
Allora eccomi qua.
EliminaSapevo che volevo ambientare il mio racconto a Casedisopra perché l’immagine della casa mi ha suggerito questo rimandandomi a Malastagione e a Francesca che si rifugia nella vecchia proprietà di famiglia. I gialli dell’Appennino di Guccini-Macchiavelli sono infatti ambientati a Casedisopra anche se la località reale di ispirazione è Pavana. Casedisopra (precisamente Case Di Sopra) però esiste davvero qui, sulle colline reggiane. Allora ho preso la località, i ricordi di quando ci sono stata e Google Maps per riportare correttamente nomi delle vie, distanze, incroci. Non lasciandomi influenzare dal titolo di Michele (La conta solitaria) ma solo dall’immagine (come pure solo dal titolo e non dall’immagine quando invece si tratta della Biblioteca Scarparo) ho visto Marco Ghirardi (scegliendo un nome che rispecchiasse la zona) tornare dopo anni all’estero (controllando se i voli, gli scali, i tempi che indicavo per il viaggio fossero corretti) per fare i conti con il passato e rivedersi bambino, in quella posa tipica di chi si rannicchia a proteggersi. Non ho svelato nulla del segreto e del passato (come pure tu che hai lasciato il finale aperto), ho solo accennato alla sorella senza approfondire nulla, ciò non toglie che nel testo proposto avesse comunque un ruolo (giustificare l’ultimo rientro in Italia di Marco 10 anni prima per essere presente al matrimonio). Entrambe sono state scelte fatte per lasciare spazio; in fondo, mica necessariamente doveva essere un racconto autoconclusivo. Anche gli altri dettagli (qualcuno effettivamente di troppo) si prestavano ad essere funzionali nell’eventuale sviluppo della storia. Per quanto riguarda il tuo esercizio. Ho rivisto un po’ Bruno e Pietro ai loro primi giochi ma l’idea della banda caratterizza e arricchisce il racconto. Mi piace la scelta dei nomi e che Cesare si presenti (ricordo che di là te l’avevano criticata questa presentazione del protagonista, per me è forte, una bella impronta al racconto in prima persona). Se il finale aperto mi piace (una sorta di riscatto ma fosse anche solo un dispetto: dimostra che come gli altri sono rimasti gli stessi burloni, anche Cesare è rimasto quello che era; se qualcuno in questo ci vede qualcosa di negativo, una non evoluzione dei personaggi, io ci vedo la natura umana), mi piace meno questo dettaglio “ma non sono un traditore e non ho mai violato la promessa di mantenere quel segreto” perché è come dichiarare la presenza di qualcun altro (a cui Cesare avrebbe promesso di mantenere questo segreto).
Della tua fantasia, Viola, mi piace la capacità di costruire una storia ampia attorno a un particolare piccolo. La sensazione che a fine lettura mi rimane spesso (ed è piacevole, qualche volta straniante, ma sicuramente non negativa) è di una riduzione dal generico al particolare per gradi: è come se l’ispirazione partisse da lontano e si avvicinasse piano piano all’oggetto che l’ha suscitata. Dunque, per esempio, in questo racconto, per arrivare alla chiave (anche il tuo finale a me è piaciuto molto) della porta di un luogo importante sei andata indietro, alla vita e alle abitudini di Marco (il fatto che facesse sport, nuotasse) e poi ancora indietro, il viaggio, il notaio, la sorella e la storia comincia da uno scalo aereo (se non ricordo male.)
EliminaIo ti vedrei bene a scrivere un romanzo, perché apri molte porte, che sarebbe interessante sviluppare. Ma ci hai mai pensato? ��
Nel caso della promessa di Cesare, sì, ho capito cosa intendi, forse avrei dovuto precisare promessa fatta a me stesso: diciamo che mi serviva un modo per chiudere citando il segreto.
Ma ci hai mai pensato?
EliminaHo tante pessime idee ma questa mai.
Attenzione che le brutte compagnie diventano ossessioni! 😜😁
Eliminacit. La gloria o il merito di certi uomini è scrivere bene; di altri, non scrivere affatto.
Elimina😄
EliminaIo direi amzi dico che non è affatto male!
RispondiEliminaResta il mistero alla fine ma è un mistero che dà forza a Cesare, alla sua coerenza.
Brava!
Personalmente avrei puntato sul bamnbino, la prima cosa che mi ha veramente colpito dell'immagine.
Non ci racconteresti una piccola trama che vedi tu in questa immagine? 😉
EliminaVeloce veloce e così come viene senza ritoccare niente. :)
EliminaSeduto sulla pietra, contro il muro di una casa abbandonata, solo con i propri dolorosi fantasmi, il bambino pareva cercare in esso una sorta di protezione. Come se volesse farsi assorbire e sparire dalla faccia della terra. Lì, dentro a quei mattoni, più nessuno avrebbe potuto fargli del male. Sarebbe stato al sicuro a leccarsi le sue ferite lontano da mostri di ogni genere. E forse, avrebbe dimenticato.
Contenta? :D)
Molto contenta, grazie! 😉🤗
EliminaQuanto mi fate impazzire voi che veloce veloce, come viene e senza ritoccare niente! 😁
Nel senso di "pensato e scritto istintivamente" :) Se avessi avuto più tempo avrei ampliato, allargato, ritoccato... Ci saranno anche errori di battitura.. ohimè!
EliminaRitagliare un po’ di tempo per pensare e scrivere istintivamente è sempre piacevole. L’istinto è più simpatico, accidenti, da assecondare. È quando non c’è che le cose si complicano! 😁
EliminaIl racconto si legge volentieri, ma concordo con Scarparo quando ti dice che alla fine lui rimane un fifone e non c'è nemmeno MEZZA verità a cui aggrapparsi. Si rimane troppo in sospeso.
RispondiEliminaMi piace cmq come scrivi 😉
Un abbraccio
Marina
Come spiegavo a Michele non era il coraggio il valore messo in gioco, ho provato a volere dimostrare altro. Che rimanga tutto in sospeso sì, quella era un’intenzione voluta: tante volte mi capita di non sapere cosa pensare quando finisco di leggere una storia e mi piaceva l’idea di sperimentare la sensazione anche da scrittrice. 😉
EliminaNon vale, mi hai lasciato con la curiosità... E comunque carino il racconto, l'idea del triumvirato.
RispondiEliminaCredo non sia affatto facile scrivere spronati da un'immagine, da un titolo e soprattutto da un esercizio, quindi acquista maggior valore qualunque composizione ne risulti.
Per rispondere alla domanda che poni riguardo la narrazione convenzionale, me lo pongo sempre ogni volta che mi trovo a a scrivere un racconto. Secondo me è bello cogliere inaspettato il lettore, quanto offrirgli uno scenario o un finale che non si aspetta, essere ovvi o scontati è il rischio che non voglio mai correre, anche proprio per allenare la mia fantasia a trovare sempre vie d'uscita alternative.
Come dicevo all’inizio del post, io fatico parecchio con i “percorsi guidati”, ma fatico fatico, eh, perché sono figlia di quella scrittura che parte sempre da un’ispirazione sincera. Però è bello anche mettersi in gioco, “forzarsi” un po’, anche perché è nella difficoltà che si cresce.
EliminaA proposito di scrittura convenzionale, il finale che ho scelto nasce proprio da questa esigenza: smontare qualche facile deduzione (perlomeno, questo era il mio scopo.)
Il bello di questi esercizi è proprio il gusto dell'invenzione, del lasciarsi andare senza pianificare troppo.
RispondiEliminaAnch'io nel passato ho partecipato a diversi contest di una community. Il regolamento imponeva commenti volti a sottolineare i punti deboli. Il tuo racconto è scritto bene. Il finale tradisce il patto narrativo, ma ti perdono lo stesso, Marina :D
Dimmi di più, Rosalia: qui, secondo te, il punto debole è il finale?
EliminaE cosa intendi esattamente per “patto narrativo”?
Cara Marina, non so, il finale mi ha lasciata interdetta. Cesare mantiene il segreto con i due amici per punirli; ma di fatto anche il lettore subisce gli effetti della punizione, rimanendo all'oscuro. Non tenendo conto del suo bisogno di sapere, di fatto si interrompe il patto che tacitamente hai stipulato con lui quando lo hai invitato a seguire queste bella storia. Io il finale l'ho vissuto così; hai detto però che altri lo hanno apprezzato, perciò penso che dipenda dai gusti e dalla sensibilità del lettore. Nessuna verità assoluta ^_^
EliminaIl finale è sempre un punto interrogativo e ti sembrerà strano, ma ti capisco: non sai quanto mi fanno innervosire, per esempio, quelli aperti, che lasciano al lettore libertà di arrivare a qualunque conclusione. Per me il racconto deve avere un punto fermo. Ecco, qui ho pensato che finendolo così potevo evitare che si chiudesse in modo scontato, perlomeno per come io lo ritenevo tale.
EliminaPer essere una che non ama l'ispirazione a comando…. Complimenti, mi è piaciuto davvero molto. Finale che ti lascia la curiosità e ti stimola l'immaginazione per sapere cosa aveva visto.
RispondiEliminaAnch'io preferisco nel mio campo lasciarmi ispirare da ciò che mi colpisce, ma mi sono accorto col tempo che se mi viene dato un tema (ovviamente legato in particolar modo a tematiche sociali, non certo "Scrivi una poesia sulla primavera", la mia testolina si mette in moto e magari non subito ma ce la fa.
Nel caso dell'immagine che hai postato, io invece ho subito notato il bambino ed ho pensato subito ad un ragazzino autistico ed a dei versi che parlassero di lui e della sua vita, delle sue emozioni più segrete e profonde.
se ti va, Daniele, ti andrebbe di scrivere anche solo due versi su quello che questa immagine ti trasmette?
EliminaMi piace molto l'idea del triunvirato. Io la svilupperei di più. Un Cesare rischia sempre di finire pugnalato e un Augusto di arrivare dopo e rovesciare il banco. Non credo di riuscire a spiegarmi. Scegliendo quei nomi ti sei inoltrata in un bosco narrativo che crea delle aspettative nei lettori. Puoi assecondarle o remare loro contro, ma non ignorarle.
RispondiEliminaLettura consigliata: Prima di morire, addio di Fred Vargas (suggestioni di imperatori romani morti in una storia contemporanea con gioco metaletterario aperto col lettore)
Grazie, Antonella. Anche tu sottolinei l’importanza di una scelta che, invece, io ho sottovalutato. Cioè, alla fine, un elemento per così dire di abbellimento, potrebbe rivelarsi il fulcro del racconto.
EliminaAnche perché mi sono addentrata senza volerlo in terreni già battuti, in qualche modo: la lettura consigliata sembra molto interessante.
Sono proprio due versi sul momento, cerca di essere magnanima :-)))
RispondiElimina"DONDOLA"
Non voglio vedere nulla
Non voglio parlarvi
Non voglio ascoltarvi
Lasciatemi in pace!
Sento i miei suoni
E mi bastano
Adesso calma, mi dico
Calma e
Dondola
Dondola
Dondola
Siete cattivi
Non mi riconosco nel vostro mondo
Dondola
Dondola
Dondola
Lo so
Non pensate che possa capire
Confondete le mie paure
Il mio rifiuto di omologarmi
Con una deficienza mentale
Ordine
Calma
Matematica di vita
Autodifesa dal caos
Cavalli liberi e selvaggi
Nella mia mente
Per contrastare
Roboanti cavalli a motore.
Dondola
Dondola
Dondola
Ed insistete
E non capite,
La vostra luce è il mio buio
I vostri suoni sono il mio incubo
Il vostro affetto soffocante, il mio terrore.
Mamma viene adesso
Mamma viene adesso
Mamma viene e mi culla
Mamma viene adesso
Mamma arriva ora
Mamma sta arrivando
Dai Marco
Mentre la aspetti reagisci
Dondola
Dondola
Dondola…
DANIELE VERZETTI ROCKPOETA®
PS scherzavo sii sincera nel dare la tua opinione.
EliminaIl tuo personaggio autistico vive dentro questo versi. Mi sono piaciuti molto: mi è arrivata la voce del bambino, la voce interiore, quella che dall’esterno nessuno è in grado di cogliere.
EliminaGrazie per avere raccolto il mio invito. 🤗
Ho avuto modo di apprezzarla a suo tempo, quando era comparsa sul blog di Michele. E questa storiella l'apprezzo anche ora, a distanza di settimane.
RispondiEliminaRispondo alle domande poste da Marina.
Di cosa è fatta una storia? Non lo so :-D. Ma da lettore so riconoscere quando funziona. Perché mi piace.
E non sempre trovo sensato dire che funziona solo perché rientra nell'uno o nell'altro schema che vuole che gli ingredienti del racconto siano apparecchiati in un modo o nell'altro.
Se mi piace, funziona. Che piaccia o no, il lettore ragiona così.
Per il resto, si può fare psicanalisi narrativa finché si vuole... :-P
Come mi comporto di fronte al rischio di una narrazione convenzionale?
Da lettore, subisco passivamente perché mi cala vistosamente l'interesse.
Da scrittore, dovrei evitarla al massimo. Magari evitando persino di mettermi a scrivere. ;-)
Eheh, te la ricordi una certa differenza fra “scrittori romantici” e “scrittori illuministi”? 😋
EliminaEcco, quello che dici è la prova di quel discorso lì. 😉
Romantici e illuminati?? No che non me la ricordo la differenza...
EliminaAvevo sentito parlare tempo fa (ma parecchio tempo fa) di "informatici" illuminati e "informatici" romantici. Forse ne parlavo con qualcuno via e-mail, non ricordo. Mo' vado a rivedere...
Divertente, però! :-D :-D :-D
No, non illuminati, proprio “illuministi”! 😋
EliminaAh, mi è scappato il lipsus. No, volevo dire il lacsus. :-D :-D :-D
Elimina(O il laptop?)
Facciamo lipgloss e chiudiamo la partita: illuminante! 😜😄
EliminaDirei che sono degli esercizi e come tali vanno vissuti. L'ispirazione comunque può giungere in qualsiasi momento. Ammetto quindi che possa capitare di trovare una buona idea anche lasciandosi ispirare dal gioco.
RispondiEliminaPersonalmente io non mi ci trovo con questo genere di cose, per questo non partecipavo al Thriller, le poche volte che l'ho fatto è stato perché eri tu a chiedermelo e ho molta simpatia per te, fosse stato per il suo ideatore avrei lasciato perdere.
Il tuo racconto mi è piaciuto. Ed è vero che ciò che non si dice o ciò che si suggerisce spesso è più forte di ciò che si dice esplicitamente.
Quello che mi riesce peggio, quando scrivo è il “non dire” le cose, per lasciarle intuire. Non mi fido mai del lettore e ho la tendenza a spiegargli tutto. Poiché la critica mi viene mossa spesso sto provando a correggere il tiro, magari non proprio in questa occasione, ma sto imparando a stare più attenta.
EliminaE devo dire che le esercitazioni di cui parlo mi sono utili, perché rappresentano un banco di prova, certo qualche volta mi impegno meno e le vivo con uno spirito piu giocoso, ma in alcune mi concentro molto.
Il Thriller resta il mio preferito, c’è poco da fare e il suo valore aggiunto per me resta sempre l’autore che l’ha ideato.
È un vero peccato che tu non abbia avuto l’occasione di frequentare Helgaldo di più per conoscerlo meglio.
Gli esercizi sono utili. In sincerità, Marina, non mi va di commentare quello che tu hai scritto perché hai ricevuto molti commenti, consigli, critiche ed elogi. Saprai valutare l'esito del tuo testo. E comunque tutto serve per migliorare la scrittura, specie col confronto. Non volevo intervenire, ma mi ha infastidito il commento del signor Lazzara. Volevo dire che magari avesse partecipato ai thriller de il "suo" ideatore: avrebbe imparato molte cose. Inoltre: se anche una persona non sta simpatica, parlarne in sua assenza mi pare troppo semplice. Tanto di cappello a Helgaldo e rispetto. Se non è possibile, meglio tacere e parlare nei commenti verso il testo di Marina o il senso del post.
RispondiEliminaMi spiego meglio: non mi piace partecipare a queste iniziative in generale perché sono fatto così. Ho partecipato giusto un paio di volte perché Marina me l'ha chiesto direttamente, la conosco e mi è simpatica; invece il suo originale propositore all'epoca non lo conoscevo, e in genere non mi inserisco dove non conosco le abitudini di casa. Poi magari sopra mi sono espresso male, chiedo venia, sono le 10 di sera e spero che il fastidio della "signora" Tiziana si limiti a questa intrusione.
EliminaNon mi limito: intervengo poco e se necessario. Non sopporto chi parla male in assenza del diretto interessato, o senza conoscere, con commenti, con post addirittura. Di cattivo gusto. Ognuno può dire ciò che vuole, ma l'educazione e un attenzione a non offendere sarebbe normale. Molto superficiale e vendicativo. Per cosa, poi?
RispondiEliminaMi scuso per gli errori, ma era veramente tardi per vedere di stare attenta. E poi inalterata scrivo veramente male.
Non ho più nulla da dire. E non è un bene.
Alterata*
EliminaMa dov'è che ne avrei parlato male? Sta montando su un caso sul nulla, ricamandoci sopra ad arte. Cattivo gusto, offendere, superficiale, vendicativo... non crede di esagerare per mezza frase in un commento più esteso? Ho già espresso il mio rammarico per essermi espresso male, non intendo scusarmi a oltranza.
EliminaC’è stata un’incomprensione chiarita, mi pare. Quindi tutto okay.
EliminaRimaniamo dentro l’argomento “scrittura”, se no ci perdiamo di casa! 😉
Sia nei commenti (i suoi e di tutti, me compresa) bisogna pesare le parole. Nei post (di altri) lo stesso. Le parole pesano e poi hanno conseguenze. Se si è scusato prima, ha fatto bene.
RispondiEliminaTranquillA, Marina. Non intervengo più. Se vuoi bannarmi, non ho problemi. Ci sono delle situazioni, dopo molte altre precedenti, che si è stufi di vedere cattiverie gratuite, specie in assenza per non so quale motivo.
Ps. non monto nulla, ho detto la mia. Non amo le discussioni, ma non si può sempre tacere. Ora non disturbo più. Parlate di scrittura, cosa che io devo ben imparare. Il citato Helgaldo è uno di quelli che mi ha insegnato.
Cara Marina, mi ero gustata questo post dal mio tablet a scuola, durante un'ora di supplenza, e ora posso risponderti.
RispondiEliminaTu sai quanto apprezzi la tua scrittura e questo brano contiene alcuni passaggi come sempre interessanti. Però hai scritto brani che ho amato molto di più. Il finale aperto non mi ha convinta fino in fondo. Mi è sembrata una materia nella quale hai dovuto in qualche modo districarti. Ecco. :)
Eheh, quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare! 💪🏻
EliminaEhm, certo bisognerebbe conoscere anche le regole del gioco...😄😉
Ciao Marina, anch'io il tuo racconto l'avevo letto da Michele e apprezzato. Parlando del finale, dico che non mi dispiace; lo trovo realistico e coerente con il personaggio che hai costruito. Da lettore, posso facilmente immaginare cosa il ragazzino abbia visto/o creduto di vedere e mi va bene che non sia tradito il segreto, anzi, penso che svelandolo, il gioco del racconto ci avrebbe perso.
RispondiEliminaCiao Iara, come stai? Non ti si vede piu spesso dalle parti di Michele e la tua mancanza si sente.
EliminaHo notato che ho diviso il pubblico fra “finale promosso” e “finale bocciato” (o rimandato). Da questo mi nasce spontanea un’osservazione che scriverò in un commento a parte, per darle un valore generico.
Grazie. Torna fra noi! 🤗
Grazie Marina 😘 Io ci sono e vi seguo come sempre anche se partecipo meno. Magari ci sentiamo per e-mail. 🙂
EliminaAGGIUNGO UNA NUOVA OSSERVAZIONE:
RispondiEliminaHo capito, dai commenti ricevuti, che la mia scelta circa il finale ha diviso la platea di lettori: a chi piace, a chi meno, a chi no.
Il finale, dunque: quello su cui avevo puntato per colpire l’attenzione, in qualche modo.
Allora, da una parte, do ragione ai detrattori perché, normalmente, avrei scelto altre conclusioni, dall’altra sono contenta di avere provocato un effetto. Qualcosa tipo: nel bene o nel male purché se ne parli.
Molte opere letterarie fanno di questo principio il motivo del loro successo.
Dunque, è meglio andare sul sicuro scrivendo una storia “comoda” oppure fa più rumore e dunque funziona meglio una scelta anche impopolare?
Io non "sprecherei" questa riflessione per un commento al fondo: potresti ampliarlo e farne un post e la discussione riservarla ai commenti.
EliminaHai ragione, Marco. La riproporrò dandole dignità di post. 😋
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