domenica 5 ottobre 2025

L’eco #14 - Archivio di ricordi: il vaso di zinnie

Van Gogh - vaso con zinnie
Uscendo dalla metro passo davanti a un fioraio, che espone all’esterno del suo negozio una rigogliosa varietà di piante. Rallento, perché i miei occhi rimangono irretiti da un vaso di zinnie posizionato sul bancale, tra una begonia e una sansevieria. Quando mi soffermo ad ammirare questi fiori variopinti, all’improvviso mi sovviene il ricordo di un momento, solo di un piccolo, ordinario, gesto apparentemente insignificante, ma per me, ancora, di grande importanza.

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Era un sabato e io stavo studiando per un’interrogazione. Avevo a disposizione il fine settimana per mettermi al passo con un paio di materie, trascurate a causa di un’influenza. Incombeva la fine del II quadrimestre e io ero rimasta indietro di latino e in italiano dovevo recuperare alcuni capitoli sul Romanticismo: avevo il tempo, ma la volontà era scarsa. Cincischiavo seduta davanti ai libri aperti. La mia scrivania era situata all’angolo della stanza, tra la finestra e il balcone: facile distrarsi guardando, fuori, il movimento di macchine e gente, anche se io fissavo il cielo, perché mi piaceva di più affondare lo sguardo nel bianco spumoso delle nuvole, in una giornata di primavera in cui avrei voluto andare a zonzo con la mia amica, in motorino, anziché studiare.

Ero immersa in quello stato di totale abulia quando qualcuno aprì la porta della mia camera; mi voltai ed era mio padre che, senza dire niente, entrò e poggiò sul pianoforte un bicchiere di vetro con delle margherite gialle dentro. Mi guardò soddisfatto, mi disse che le aveva raccolte di ritorno dalla campagna. Non erano tante e gli steli erano stati accorciati, ma anche così avevano  qualcosa di poetico, mi misero subito di buon umore. Lo ringraziai, pensai: “mio padre mi ha portato dei fiori” e con un sospiro compiaciuto tornai sui libri...


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La voce del fioraio - “Signora, glielo faccio un mazzo di queste splendide zinnie?- mi riporta alla contemporaneità. Il flashback ritorna a occupare il suo spazio nelle retrovie del pensiero. 


Quando vado a trovare i miei genitori (a Roma ormai da un anno) salgo in metro e scendo alla penultima stazione della linea A; poi percorro un breve tragitto in autobus, fattibile anche a piedi: sono circa tre chilometri, che non mi spaventano, abituata come sono a camminare tanto. Ma in estate, col caldo, preferisco aspettare l’892 o l’889, che passano con frequenza giubilare: ormai ho stretto un legame affettivo con un albero, solitaria sentinella della pensilina, al quale mi appoggio tutte le volte: mi pare che incassi con pazienza la mia ansia e il nervosismo da lunga attesa. 


Il televisore è acceso. Nel primo pomeriggio trasmettono programmi di scarsissimo rilievo, quasi sempre incentrati su una tragedia, che evidentemente soddisfa la curiosità morbosa di qualche spettatore, non quella di un uomo chiuso in un mondo tutto suo, dove vorrei entrare anche solo per pochi attimi, per capire cosa si prova in quello stato e per afferrare i pensieri che attraversano il reticolo di nervi e vasi sanguigni sfibrati di un cervello che ormai  fa fatica a coordinare tutto. 

Mio padre è seduto nella sua poltroncina, incurvato in una postura scorretta, come se a piegarlo fosse la vita stessa, che gli ha fatto il brutto scherzo di allentargli tutti gli stimoli cognitivi. Ha gli occhi sullo schermo, lontani dal mostrare interesse verso ciò che sta guardando, ma pronti ad aggrapparsi a quelli di chi gli parla e vorrebbe, invano, ricevere da lui una risposta. Sembrano occhi che chiedono aiuto, ma io so offrire in cambio solo un sorriso: “Papà, come stai?”


Mio padre aveva molteplici interessi.  Era un grande collezionista, teneva rapporti con altri appassionati di francobolli e numismatica attraverso le piattaforme on line di commercio: gestiva un account ebay con una maestria invidiabile e il suo canale vantava un feedback molto positivo quanto a competenza e affidabilità. E poi, alla sua età, sapeva maneggiare, con l’abilità di un informatico, il software Photoshop di Adobe: si divertiva a creare dei fotomontaggi pazzeschi. 

Ogni giorno, di buon ora, si recava in macchina alla Strata ‘a foglia, il mercato ortofrutticolo più antico di Caltanissetta e rientrava carico di frutta, verdura, di funghi (che adorava), di olive (che condiva come piaceva a lui), di “vavalùci” (le lumache, quando le trovava) e usciva di nuovo, spesso per adempiere a tutte le varie incombenze burocratiche: bollettini da pagare, ricette mediche da richiedere... Poi, quando terminava le attività fuori casa, concedeva un lungo lasso di tempo ai sui hobby: il computer acceso, i cataloghi di francobolli sempre aggiornati, l’agenda sulla scrivania piena di appunti, date, indirizzi.

Era un uomo preciso e organizzato.

Era un uomo sereno.

Difficile rassegnarsi al fatto che una malattia neurodegenerativa possa averlo progressivamente privato delle sue capacità e allontanato per sempre dalle abitudini del vivere quotidiano. 


Allora sapevo che le margherite di mio padre, in quel vaso di fortuna riempito d’acqua fino all’orlo, non sarebbero durate a lungo, perché è la natura a volerlo: la bellezza ha una scadenza, come la vita. Ma me le sono godute giorno dopo giorno, mentre erano là per me, ad abbellire un angolo della mia camera. 

E anche adesso, a distanza di quasi quarant’anni, interpreto in modo analogo questo senso di caducità: mi godo la presenza di mio padre, ancorché muta. Io e lui, nella stessa stanza, davanti a un televisore acceso. In silenzio. 

Sul tavolo, un vaso con un mazzo di coloratissime zinnie, testimoni del tempo che scorre inesorabile, ma avvicina il presente ai ricordi più belli.


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Se volete conoscere le ragioni della nascita di questa rubrica leggete l'#Eco 1

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1 commento:

  1. Bello, tuo padre è anche simpatico, ne hai fatto un bel ritratto

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