mercoledì 14 febbraio 2018

San Valentino e autofiction



Ho scritto ti amo alla persona sbagliata.

Oggi è San Valentino. 
Presa dalla foga, da un ricordo, da un desiderio, apro la mia casella di posta elettronica, scrivo una mail con un contenuto spiccio ma significativo: TI AMO, così, in stampatello, sposto il puntatore del mouse dentro il campo del destinatario: sto per regalare a qualcuno il momento di coraggio che finora non ho mai avuto. Digito l’iniziale del suo nome, tanto l’indirizzo completo è memorizzato, infatti mi compare insieme ad altri nel menu a tendina, ma accade l'inimmaginabile: commetto un errore. 
Presa dalla foga, dal ricordo, dal desiderio, in un attimo di distrazione premo il tasto invio senza accorgermi di averlo destinato a chi non doveva riceverlo. In un fiat parte la mail, in un fiat realizzo che A non è Antonio, ma Alessandro: ho scritto ti amo al mio ex e so esattamente in che guaio mi sono cacciata.
Trattengo il respiro, ingoio a fatica, provo a gridare “che hai fatto, Marina”, ma a dirlo sono solo i miei occhi spalancati sul messaggio comparso in alto, nello schermo: “la tua mail è stata inviata.”
Le impronte umide delle dita si riassorbono appena le allontano dalla tastiera, mi accorgo che non mi stanno sudando solo le mani, ma la fronte e il collo e le gambe accavallate sotto la scrivania. “Che ho fatto”, ripeto ad alta voce.
Spingo indietro la sedia, mi alzo, infliggo uno sguardo accusatorio al monitor: il pc “ubbidiente” ha solo eseguito un comando, lui non ha colpa. Quel “ti amo” attraversa l’etere in una frazione di secondo, lo immagino arrivare fiero dentro la mail di un figlio di puttana, lanciare il segnale di approdo: “c’è posta per te”
Le pareti della stanza mi si stringono attorno, sono prigioniera dentro una scatola e faccio avanti e indietro in un metro di pavimento prendendo a morsi l’aria con la paura e l’ansia che ritrovo immutate, dopo averle tenute sepolte sotto metri di ricordi rimossi. [...]

****

Questo è l’incipit del racconto di un episodio della mia vita.
Forse.
Potrebbe valere come esempio di autofiction?
Sono io che narro, ho speso il mio nome e quello di persone reali, ho attinto da un fatto autobiografico: è una storia vera, verosimile, finta ma che sembra possibile? o possibile ma falsata ad arte per creare un po’ di interesse attorno a un fatto banale?
Perché autofiction è questo, ma è anche molto di più. 

Quella che ho scritto io è solo una storiella che uso come pretesto per concentrarmi su un termine che, negli ultimi tempi, è entrato nel linguaggio letterario italiano e che io faccio fatica a inquadrare nella sua specificità.
Apparentemente il discorso è semplice: l’autofiction (letteralmente “finzione di sé”) inquadra quei romanzi che sono a metà strada fra autobiografia e finzione, fra il racconto di fatti realmente vissuti e una sorta di distorsione romanzata degli stessi. Lo scopo sarebbe quello di indurre nel lettore il sospetto circa la veridicità degli avvenimenti, provocare un disorientamento sull’effettività della vicenda narrata, perché non esiste una chiave di lettura grazie alla quale interpretare l’asserzione di una verità o di una finzione: tutto resta avvolto nell’ambiguità.

Nel tentativo di capire cosa sia in concreto l’autofiction (o autofinzione) mi sono imbattuta, in rete, in tutta una serie di disquisizioni filosofiche a opera di ricercatori e accademici, i quali ne hanno fatto un’indagine completa ma anche complessa che, non nascondo, mi ha confuso parecchio. 
Ciò che mi è chiaro è quale sia il tentativo sotteso all’uso di questo che qualcuno chiama uno “stratagemma letterario”: costruire narrativamente un io finzionale serve a creare una connessione più stretta fra il se stesso che si racconta e gli altri, un ponte emotivo che collega le esperienze individuali con quelle di tutti.
L’incertezza voluta dall’autore serve a far sì che il lettore partecipi attivamente del processo di identificazione con i personaggi, perché ne percepisce una vicinanza, li può toccare con mano, quasi, e non lasciarli dentro le pagine di un romanzo inventato. Se è l’autore stesso a mettersi a nudo, a colpevolizzarsi, a essere protagonista in prima persona di storie anche meschine, sarà più facile per il lettore ritagliare all’interno del proprio vissuto una corrispondenza con quegli elementi esibiti nella narrazione, potrà capirli, abbandonarsi più consapevolmente alla famosa “sospensione dell’incredulita” che gli consentirà di entrare nella storia senza scontrarsi con il limite della referenzialità di chi scrive.

Non entrerò nel merito della nascita non recente del termine (negli anni settanta, il primo a farne uso fu lo scrittore francese Serge Doubrovsky nel suo romanzo “Fils”), sebbene solo negli ultimi tempi, in Italia, si senta parlare di romanzi appartenenti al genere “autofiction”: “La più amata” di Teresa Ciabatti è l’unico che ho letto, ma c’è un’ampia letteratura a riguardo, con autori che hanno scritto romanzi concepiti con dispositivi finzionali molto riusciti: cito il più rappresentativo, Walter Siti. È lui che ha definito l’autofiction un’autobiografia di fatti non accaduti: in pratica si rende verosimile ciò che non è autentico o si tende a falsificare l’autobiografico, in una contraddizione che è impossibile risolvere.
È questo il gioco ambiguo chiesto dall’autofinzione.

Ciò che mi preme capire è se essa sia solo un modo per dare dignità a un nuovo genere letterario che avanza nell’era del romanzo postmoderno oppure se serve a creare un nuovo modo di rappresentare la realtà. Siti dice espressamente: “soltanto inoculandomi i virus della contemporaneità, e osservandoli dentro di me, potevo sperare di afferrarli politicamente”, cioè lo scrittore usa l’autofinzione per sottolineare le storture del contemporaneo; in tal senso essa assurge a mezzo per osservare il mondo: l’io si narra per leggere e sperimentare su di sé le trasformazioni in atto.

Ha o non ha delle implicazioni affascinanti, questa parola tanto di moda?
E io credo di avere capito perché lo è diventata, di moda: è lo specchio dei tempi che viviamo. In un’epoca in cui è la fiction a dettare legge e i mezzi di comunicazione di massa hanno un ruolo centrale nella costruzione di verità distorte, l’autofinzione si cala perfettamente nell’attuale tessuto sociale.

In fondo, anche uno scrittore può assecondare il gusto del pettegolezzo, no? E se lo fa bene, il risultato in termini di efficacia è garantito.

Il mio è solo un racconto (che giace, completo, dentro una carpetta insieme ad altri progetti) nel quale ho calato la verità in un flusso di finzioni, ma il lettore non capirà mai dove e se ho colmato i vuoti della memoria con l’immaginazione. Non mi interessa sapere se ho suscitato interesse, ma anche solo supporre che qualcuno possa chiedersi se sto raccontando la verità nuda e cruda o sto ammantando di realtà una storia inventata mette un po’ di pepe alla mia creatività.
Insomma, comunque si voglia chiamarla: scrittura narcisista, esibizionista o semplicemente scaltra, l’io finzionale è anche funzionale.
Forse.

36 commenti:

  1. In effetti una narrazione in prima persona che lasci sottintendere che si tratta di esperienze di vita e non di fiction cattura maggiormente l'attenzione come tutte le cose "reali" (che magari sono meno reali di quanto sostengano di essere, tipo certe notizie di cronaca...)
    Se questo espediente narrativo stimola la tua creatività scrittoria fai benissimo a cimentartici.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Se ci pensi, tutti riversiamo su ciò che scriviamo qualcosa di autobiografico, ma l’autofiction gioca sull’equivoco consapevole: cosa di quello che ti sto raccontando è vero e cosa è mescolato alla finzione? Se io ti annuncio prima che ciò che leggerai è autofiction, tu sai che è in questo gioco “perverso” che voglio attirarti. Cioè alla fine, identificare in questo genere un determinato romanzo è come dire al lettore: guarda che l’autore ti sta raccontando una porzione della sua vita, sei curioso di sapere di che si tratta?

      Elimina
  2. Non penso che sia strettamente necessario ricorrere all'autofiction per guadagnare in credibilità. E nemmeno per favorire il coinvolgimento emotivo del lettore. Parere personale, ovviamente. :-)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Guadagnare in credibilità? Semmai il contrario: se io mi nascondo in ciò che scrivo cerco di confondere, non di essere creduto. Il coinvolgimento emotivo c’è o non c’è a prescindere dal fatto che tu stia raccontando una storia vera che vuoi far credere finta o viceversa. Comunque una storia deve raccontare “qualcosa”, e non è detto che quel qualcosa mi piaccia.

      Elimina
  3. Concordo con Ariano. Il non capire al 100% se è realtà o finzione incuriosisce anche di più.

    RispondiElimina
  4. Interessante questo termine, che non conoscevo. Mi sembra che contenga un piccolo inganno, motivo per cui non mi suscita troppa simpatia, ma è innegabile che la curiosità si desti nel dubbio. Il raccontino, poi, era davvero carino. :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. È da un po’ che cerco di capire il meccanismo dell’ autofiction di cui sento parlare sempre più spesso, allora mi sono ricordata del mio racconto scritto qualche anno fa: volevo capire se potesse inserirsi in questo discorso. Leggendo molto sull’argomento ho capito che il fenomeno è molto più complesso del modo in cui l’ho rappresentato io, provando a semplificare. Mi affascina, lo ammetto e leggerò la trilogia di Walter Siti per approfondire la faccenda.

      Elimina
  5. E io ti complico ancora un po' le cose: in questo mondo di social e di avatar, non siamo un po' tutti scrittori di autofiction? Dopotutto presentiamo, attraverso smartphone e pc, solo una selezione dei fatti che ci capitano. Alcuni potrebbero persino essere falsi.
    L'autofiction mi pare null'altro che il linguaggio del presente. (E, pertanto, è già tardi per usarla per scrivere: l'artista dovrebbe essere precursore, non al seguito e nemmeno sulla cresta dell'onda.)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. PS: Anche "Le otto montagne" è autofiction.

      Elimina
    2. Precursore se ti piace sognare, vuoi rischiare e se hai la pazienza di aspettare che i tempi siano maturi, ma il successo nella narrativa, lo sai bene, è decretato proprio dalla sua concordanza con i fenomeni contingenti. Vuoi leggere dei tempi che vivi ed ecco che ti piace la storia che racconta di cani straordinari, quella che tratta con garbo e rispetto una relazione gay, quella che indaga su come uno qualsiasi sia diventato un youtuber da totmila followers.
      Lo scopo resta sempre quello di produrre per vendere: i tempi, ora, sono quelli giusti per la diffusione di un genere “ibrido” come l’autofiction.

      Elimina
    3. Le tue amate “otto montagne”, vero! 😁
      In realtà ci sono molte opere in bilico fra romanzo e autobiografia, cioè in fondo, se ci pensi, la tendenza all’autofinzione si trova anche in Dante (volendo) e io non posso non citare il grande Proust; infatti vorrei che qualcuno mi spiegasse se esiste un’accezione particolare del termine “autofiction” tanto da farne un preciso genere letterario.

      Elimina
  6. Il rischio dell'autofiction è che poi il lettore ti identifica totalmente con l'io narrante, a questo punto; pericolo che è sempre in agguato persino nelle narrazioni in terza persona. Se nell'autofiction esprimi concetti portati all'estremo, poi ti trovi inseguito da una folla armata di forconi!
    P.S. Mi è capitato di ricevere per sbaglio una mail uguale a quella del tuo racconto, e oltretutto inviata da una donna. :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, infatti, qualcuno ha parlato di tendenza all’esibizionismo, ma è anche un modo per dire delle cose con il filtro del dubbio, che un po’ ti rende meno esposto. Comunque sì, il rischio dei forconi c’è. 😄

      Si sarà fatta due risate la lei che ha sbagliato e, immagino, anche tu che hai ricevuto la mail.
      Io ho riso molto meno, il lui sbagliato, invece,... vabbè, è autofiction! 😉

      Elimina
  7. Anch'io ho pensato subito a Le Otto Montagne, d'altra parte dissi di averlo letto come se fosse la biografia di Cognetti pur inquadrandolo dopo come romanzo biografico, anche per La più amata sai già. Scusami se non vado proprio nel contenuto specifico del post ma mi fermo prima perché intanto mi chiedo: abbiamo bisogno di questo termine "autofiction"? Credo la risposta sia implicita nella domanda. Il genere, indipendentemente da nuove definizioni, è accattivante anche se l'eccessiva esposizione di oggi (anche tramite i social ma non solo) e, comunque, la possibilità di fare velocemente ricerche e ottenere informazioni lo rende particolarmente arduo. Per quanto riguarda il tuo racconto introduttivo è assolutamente credibile (non ti dico cosa ho combinato io con qualche chat WA)come ti era venuto bene (molto!) quello sul tuo amore per Alessandro. In questo, una cosa che invece proprio non mi piace è "inimmaginabile"

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Lo sai che sorrido, adesso, perché sto pensando che questo nome torna troppo spesso e che dunque ci sia qualcosa di veramente inconscio che mi lavora dentro pure quando scrivo di altro! 🤔

      La prima volta che ho sentito parlare di autofiction mi sono detta anch’io: ecco, si sono inventati un’altra diavoleria per attirare l’attenzione. Ma che roba è? Poi ho intuito cosa fosse grazie alla Ciabatti e sì, ho dimenticato di citare Cognetti, che ha seguito la stessa tendenza.
      A me, per esempio, piace pensare che ciò che sta scrivendo un autore appartenga alla sua vita, rispecchia il mio, chiamiamolo, voyeurismo letterario. Un’autobiografia, però, limiterebbe la mia immaginazione, questa autobiografia finta o finzione autobiografica, invece, mi stuzzica. (Per esempio, scriverne io, non saprei...)

      “Inimmaginabile” 😊
      Con cosa potrei sostituirlo?

      Elimina
    2. VIola, la cosa simpatica è che tu hai risposto e a me è arrivata la notifica, ma qui non risulta nulla. E nemmeno capisco il perché. 😕
      Comunque mi consigliavi di eliminare il termine “inimmaginabile”, forse hai ragione.

      Elimina
  8. Ho appena cominciato l'ultimo di Genovesi, e l'autore dichiara all'inizi che alcune cose sono inventate, e sono le più credibili. Il protagonista si chiama Fabio ha la stessa età ed è evidentemente lo scrittore stesso. Autofiction anche qui dunque. La Ciabatti pare abbia fatto un boomerang, sta diventando quasi La più detestata, un rischio da correre quando la storia vale la pena di essere raccontata, se si sa farlo, Ciabatti, Cognetti e Genovesi per me lo sanno fare.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Nella mia indagine ho trovato molti autori di autofiction. A parte Walter Siti, ho letto analisi accurate delle opere finzionali di Aldo Busi, Fabrizia Ramondino, Tiziano Scarpa, Emanuele Trevi, Davide Bregola, Michele Mari, Edoardo Albinati, Mauro Covacich, Antonio Scurati, Giuseppe Genna, tu ora citi Genovesi.
      Sono tanti. Io mi ero fermata alla Ciabatti e mi avete fatto notare anche Cognetti!

      Elimina
  9. Carino il tuo racconto, che per un attimo forse per l'io narrante ho pensato raccontasse di te, di una disavventura...
    Tra i tanti esempi mi viene in mente il libro autobiografico di Gramellini, Fai bei sogni, che è diventato anche film. Qui l'autofiction è all'apice, non penso abbia realmente solo scritto di sé, ma per la sua caratteristica giornalistica amplificato un po' il tutto. Comunque il messaggio arriva forte e chiaro, perché io quando l'ho letto ho capito solo alla fine raccontasse della propria vita e lì il groppone mi è salito forte dallo stomaco.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sto capendo adesso che l’autofiction è la scelta di molti scrittori; ora che ci penso, qualche anno fa ho letto un romanzo di Franco Di Mare, “Non chiedere perché” di forte matrice autobiografica, ma come spiegava in un’intervista Isabelle Grell, una studiosa di questa pratica letteraria, l’autobiografia racconta la vita nella sua totalità, è più la cronaca di una vita, nell’autofiction si racconta una parte di essa, per sezioni; lei testualmente dice: “l'autore estrae un filo dal tessuto che è la sua vita e, più che tagliarlo, lo segue, lo taglia, lo riattacca, lo sfilaccia, lo riannoda. Non tenta di mostrare al lettore, attraverso il racconto, un cappotto fatto del tempo passato, un abito che veste tutta la persona.“

      Elimina
  10. Concordo con Ariano Geta, e, almeno stando al tuo incipit, l'autofiction funziona, o forse funziona con il tuo passo che è convincente e coinvolgente.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Gestire un racconto, però, in bilico fra vero/non vero/ probabile/ verosimile impegna in modo relativo. Certo strutturare un intero romanzo entrando e uscendo da autobiografia e fiction non dev’essere facile.
      Autofiction e poesia, invece, sarebbero compatibili?

      Elimina
    2. Non credo. Io a volte scrivo di certe tematiche "creando" personaggi che parlano in prima persona ma è diverso dall'autofiction. Io poi scrivo soprattutto trattando tematiche sociali e quindi l'autofiction non si presta.

      Elimina
  11. Il racconto ha un impatto coinvolgente, per un attimo ho pensato davvero che ti fossi messa nei guai :D. Se è così l'autofiction funziona per catturare l'attenzione del lettore. Non so se c'entra qualcosa con il discorso, ma a un tratto mi è venuto in mente il film Perfetti sconosciuti. Per un'ora e mezza si assiste a delle storie che sembrano reali e molto coinvolgenti dal punto di vista emozionale. Solo nel finale si scopre che sono frutto di immaginazione. Forse il genere autofiction ha somiglianze con un racconto cinematografico di questo tipo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ma io nei guai potrei essermi messa sul serio! 😋

      Bello quel film: lì si gioca sull’equivoco, la sceneggiatura e la finzione cinematografica consentono di cascare nel “tranello”, nell’autofiction c’è una sorta di consapevole accettazione di un gioco: io ti credo se mi dici che mi stai raccontando qualcosa di vero, ma so anche che mi stai avvertendo che non lo sarà del tutto.
      Nel film non c’è questo patto, lì c’è proprio l’intenzione di fare credere vera qualcosa per ben costruire il colpo di scena finale, che infatti riesce benissimo.

      Elimina
  12. Tuo incipit a parte, devo dire che l'autofiction mi ispira veramente poco. Va bene l'autobiografia se hai vissuto qualcosa di davvero eccezionale. Va bene la fiction su tutto, perché la letteratura può illuminare qualsiasi cosa. Ma la fiction che finge di essere autobiografia di una vita normale? Dio me ne scampi. O, almeno credo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ormai viviamo nel regno dell’ambiguità, dove tutto è possibile, sembra vero e non lo è o sembra falso ed è tutto reale, le notizie non sai più come prenderle, guardi con sospetto ogni informazione che passa attraverso i mezzi di informazione, la letteratura pare si sia adeguata: davanti a un’opera d’immaginazione ci si domanda cosa ci sia di vero e davanti a ogni opera ispirata a fatti realmente accaduti ci si chiede cosa ci sia di falso. Ti dirò, la priorità per me va sempre alla storia che deve conquistarmi, poi mi piace giocare sulla confusione fra realtà e finzione, ma mi indisporrei se leggessi banalità o pretesti per raccontare porzioni di vite poco interessanti.

      Elimina
  13. Sinceramente ho pensato che il racconto fosse autobiografico. Il molto vicino al reale comunque attrae ;)
    Un abbraccio
    Marina

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Marina. C’è del vero, c’è del vero...
      Nell’autofiction si realizza uno scambio tra il narcisismo dello scrittore e la curiosità del lettore, anche se a me piace inserire nelle cose che scrivo suggestioni autobiografiche che sfiorano appena il reale, in fondo non sono molto esibizionista. :)

      Elimina
  14. Prima dell'autofiction c'erano i reality. Perché? Perché l'essere umano è curioso, impiccione e un po' pettegolo. O forse ha bisogno di sapere di non essere l'unico con determinati problemi, e magari è alla ricerca di probabili soluzioni. O gode nel sapere che pure gli Dei dell'Olimpo hanno le loro magagne.
    Comunque, se ben impostati, tutti i client di posta e anche alcuni servizi di webmail consentono il "richiamo" della mail partita per errore. Se ben impostati... ;)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Proprio così, l’autofiction è un reality letterario che avvicina scrittore e lettore, come se lo scrittore, raccontando di sé senza crogiolarsi nella semplice autobiografia, stesse dicendo: “ma a voi non è mai capitato di...”
      Cara Barbara, non sai cosa darei per sapere anche solo definire il termine “client” 😋: richiamo? Impostazioni? Io invio e ricevo e tanto mi basta per sapere come funziona il servizio di posta elettronica. 😁

      Elimina
  15. È un gioco molto interessante da fare, soprattutto perché con la scrittura è facile mettere qualcosa della propria vita in un racconto. Farlo consapevolmente giocando sull'equivoco può essere divertente e scatenare la fantasia.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. È facile o difficile? Cioè è più facile raccontare di sé, sapendo che inevitabilmente terrai gli occhi dei lettori dentro la tua vita (come denudarsi un po’, no?) o la difficoltà è proprio questa? Allora perché farlo?

      Elimina
  16. Onestamente, stai parlando di qualcosa che non conoscevo, prima di leggere questo post. Non immaginavo che esistesse l'autofiction.
    In un certo senso però credo che tutti i lettori siano un po' incuriositi dagli autori che apprezzano. Io quando leggo un romanzo a volte mi chiedo se l'autore ha tratto ispirazione da eventi che gli sono capitati (in romanzi che lo permettono ovviamente, non nei fantasy o simili) e, quando scopro che magari è proprio così, mi sento più vicina all'autore. Ma solo se il romanzo mi è piaciuto.
    Credo che sia una tecnica interessante, ma la validità di una storia non si basa solo sulla possibilità che sia reale.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, infatti la storia deve anche “raccontare” qualcosa, comunque la costruzione deve reggere sempre sui capisaldi della narrazione, rendersi accattivante, incuriosire. Ed è lì che si inserisce la componente fiction: devi inventarti delle svolte intriganti, aiutarti con personaggi che non risultino piatti. A meno che non si abbia una vita pazzesca, raccontarla può non risultare così interessante.

      Elimina